Giorgio Metta, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia: «Rete e robot, così andrà tutto bene»

Giorgio Metta, direttore scientifico dell'Istituto Italiano di Tecnologia: «Rete e robot, così andrà tutto bene»
di Andrea Andrei
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Giovedì 28 Maggio 2020, 01:33
L’hanno detto in molti e tanti altri lo hanno pensato: chissà come sarebbe andata se per affrontare questa pandemia non avessimo avuto a disposizione la tecnologia di oggi. Fra quelli che se lo sono chiesto c’è anche uno che di innovazione se ne intende. Giorgio Metta, ingegnere e direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova, è stato protagonista e testimone del contributo che la ricerca scientifica ha dato al nostro Paese (e non solo) durante l’emergenza causata dal coronavirus. Il suo istituto, una delle maggiori eccellenze italiane sulla robotica e l’automazione, ha lavorato infatti fin dal primo momento per creare soluzioni innovative, sia hardware che software, per assistere le strutture pubbliche – sanitarie e non – nella lotta contro il Covid-19. Da un braccialetto intelligente, “iFeel-You”, che monitora la distanza di sicurezza fra persone, a un robot da corsia che interagisce con i medici e pazienti dei reparti ospedalieri fino a un ventilatore polmonare versatile realizzato in tempi record insieme a Ferrari, sono una decina i progetti presentati dall’IIT nel periodo del lockdown. «Siamo stati veloci, è vero», racconta, «ma la vera fortuna è stata avere a disposizione una tecnologia già avanzata per contrastare questa pandemia».

Sta dicendo che poteva andare peggio?
«Decisamente. Prima di tutto da un punto sanitario: la ricerca ci ha permesso di capire in tempi brevissimi le caratteristiche del virus e come affrontarlo, anche se ancora non abbiamo una soluzione farmacologica. E poi pensiamo al ruolo determinante che hanno avuto le connessioni e il digitale diffuso: abbiamo potuto continuare a lavorare a distanza, a studiare, abbiamo passato il tempo in maniera più sopportabile. Non posso smettere di pensare come dev’essere stato nel 1919, quando scoppiò l’epidemia di febbre spagnola. Il mondo di allora non ebbe la possibilità di fermarsi come abbiamo fatto noi».

Che cosa non ha funzionato?
«Se la banda larga fosse stata ancora più diffusa, ci avrebbe dato una mano. Con una connessione ancora più efficiente, magari applicata alla robotica, avremmo potuto mantenere in funzione anche quei settori produttivi che sono stati costretti a fermarsi senza la presenza umana. Però devo dire che le reti hanno retto bene, nonostante l’utilizzo massiccio». Quindi saremmo già in grado di far funzionare le fabbriche a distanza? «Non ancora. C’è stato un dibattito internazionale fra i ricercatori, molti dei quali si sono chiesti per quale motivo non potessero essere utilizzati i robot negli ospedali come nelle fabbriche. La risposta, molto semplice, è che si tratta di tecnologie che non sono ancora disponibili sul mercato. Oggi la robotica intelligente può andar bene in una catena di montaggio per assemblare un’automobile, ma un robot del genere non ha ancora la capacità di adattarsi a un ambiente a lui sconosciuto».

Lei ha citato come tecnologie indispensabili connessioni e robotica. Proprio due dei temi che sono al centro di ampi e feroci dibattiti sulla tecnologia, dal 5G alle macchine che rubano il lavoro alle persone.
«La diffidenza nel futuro e nel cambiamento c’è sempre stata: la paura costante che la macchina possa sovrastare l’uomo. Ma chiunque conosca e si occupi di robotica e automazione vede benissimo quali sono i limiti delle macchine. E sa altrettanto bene che non saremo mai in grado di creare delle macchine che sostituiscano l’uomo. Quello che i robot possono fare, semmai, è aiutare l’uomo a faticare meno e a non esporlo ai pericoli».

Quindi i robot non ruberanno il lavoro alle persone?
«No. Dietro ogni macchina c’è un uomo che la comanda. I robot tolgono al lavoro umano la parte peggiore, quella dello sforzo fisico, che può danneggiare la salute: pensiamo a che possa voler dire ad esempio sollevare pesi e spostare oggetti per un’intera vita lavorativa. Però mantengono la parte più importante: la fantasia, la creatività. È a questo che serve l’ingegneria e la tecnologia in generale: a farci vivere meglio».

Ciò che stiamo passando ci aiuterà a essere meno diffidenti nei confronti della tecnologia?
«Lo spero, anche se è non è facile far comprendere quanto sia importante. Siamo tutti talmente abituati ad avere la tecnologia a portata di mano, che non ci facciamo più caso. Eppure basterebbe pensare a quanto siano aumentate negli anni la qualità e la durata della vita. E negli ultimi mesi, tra smart working e teledidattica abbiamo scoperto anche che uno Stato digitale è possibile e necessario».

Durante l’emergenza sanitaria è cambiato qualcosa secondo lei?
«Le faccio l’esempio del robot da corsia che abbiamo sviluppato per i reparti di terapia intensiva, che permette di monitorare frequentemente i pazienti ricoverati senza che un medico debba fare avanti e indietro. Lo abbiamo creato in pochi giorni. Avevamo la tecnologia necessaria per attrezzarci già prima, ma non lo avevamo fatto perché non conoscevamo quell’esigenza. Fino ad ora siamo sempre stati noi ricercatori a immaginare delle applicazioni possibili per le nostre invenzioni. Stavolta l’input è arrivato dall’esterno: a chiederci quel robot sono stati gli ospedali. Questa è stata l’esperienza più interessante, la vera rivoluzione: la tecnologia si è messa a disposizione di chi era in prima linea a combattere il virus. E in 5 settimane abbiamo costruito un ventilatore polmonare, in 4 un software per il distanziamento sociale. È emerso quanto sia importante per noi avere più mezzi di supporto per muoverci rapidamente: una parte del mondo della ricerca del Paese potrebbe essere orientata a creare soluzioni d’emergenza».

A proposito di soluzioni d’emergenza, tra queste la più dibattuta è stata l’app per il tracciamento dei contagiati.
«Lì va assolutamente trovato un equilibrio tra la necessità di tenere sotto controllo il virus e l’esigenza di privacy. Da una parte ci vuole un sistema che tenga traccia solo delle informazioni strettamente necessarie, dall’altra bisogna avere senso di responsabilità. Se ci pensiamo, tutti noi accettiamo già di essere tracciati in cambio di alcuni servizi, come ad esempio le carte di credito. Si tratta quindi di rinunciare a una piccola parte della nostra privacy, l’importante è che sia quella giusta».

E finora abbiamo ceduto la parte giusta, per esempio ai social network o ai cosiddetti giganti del web?
«In quel caso è diverso. Quelle aziende si sono dimostrate fin troppo aggressive, e per cercare un profitto sempre maggiore hanno finito con l’invadere la nostra privacy, anche la più intima. Sono diventate una presenza assidua nelle nostre vite. Perciò andrebbero quanto meno controllate. In Europa devo dire che siamo molto attenti a certe questioni, e abbiamo degli organi che se occupano. Ma il timore che questi colossi diventino un’oligarchia, detto fra virgolette, è fondato».

Qual è l’aspetto che la preoccupa di più?
«La loro capacità di invadere praticamente ogni settore. Hanno una tale potenza che riescono a spaziare dall’e-commerce all’intrattenimento. Non è un caso che questi grandi gruppi stiano investendo molto in intelligenza artificiale, che richiede grossa potenza di calcolo e immense quantità di dati. Loro hanno entrambe, e questa è la chiave che darebbe loro un’ulteriore spinta al loro strapotere e che gli permetterebbe di sconfinare in campi ancora più delicati, come la ricerca scientifica. Pensiamo ad esempio alla velocità con cui una piattaforma sviluppata da Amazon, Google o Facebook potrebbe analizzare l’enorme mole di pubblicazioni scientifiche con cui noi ricercatori lavoriamo quotidianamente. Sarebbe una buona cosa, ma se questa capacità fosse solo nelle loro mani, vorrebbe dire affidare loro il futuro della ricerca e delle sue tante applicazioni, come la farmaceutica. La vera domanda da porsi sull’intelligenza artificiale è: “chi ne avrà il controllo?”».

E dello scontro tecnologico tra gli Usa e la Cina invece cosa pensa?
«Che dovremmo sfruttare di più la nostra visione europea, che è una via di mezzo tra il modello cinese con uno stato onnipresente, e quello americano, con uno stato inesistente.
Sarebbe bello superare le logiche dei blocchi: ci vorrebbero le idee dell’America, i mezzi della Cina e i valori dell’Europa. L’emergenza comune del virus ci ha aiutato, ma non è ancora abbastanza. Ci sono delle sfide che ci riguardano tutti, in primis quella per la sostenibilità: dobbiamo fare tutti la nostra parte. In quel campo abbiamo grandi possibilità di fare ricerca, e anche il nostro Paese ha delle potenzialità importanti. Non dobbiamo sprecare questa occasione». 
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