Viaggio nella galleria dei campioni con Nicola Pietrangeli: «Un'emozione passare da qui»

Viaggio nella galleria dei campioni con Nicola Pietrangeli: «Un'emozione passare da qui»
di Federica Macagnone
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 17 Maggio 2017, 19:30 - Ultimo aggiornamento: 19:54

Percorrere quel budello sotto il Foro Italico tra le immagini dei campioni di ieri e di oggi è come tuffarsi nel tunnel dei ricordi. Ci sono tutti i grandi tennisti che hanno vinto gli Internazionali d'Italia dal 1930 fino ai giorni d'oggi. A ogni passo sembra di rivivere le loro emozioni: il fiato corto prima di una finale, i passi che portano verso la vittoria o verso una sconfitta, la concentrazione, il borsone sulla spalla che pesa come quella volée sbagliata. Un percorso di qualche metro che può sembrare lungo chilometri se si deve riportare negli spogliatoi il peso dei pensieri dopo una sconfitta. A guardare i campioni di oggi, lungo la galleria, ci sono i campioni di ieri. Tra questi, Nicola Pietrangeli, che sulla terra rossa riuscì a mandare fuori giri anche Rod Laver. E oggi il Messaggero.it ripercorre quel viaggio nei ricordi proprio con lui, il grande Nick che ci permette di sfogliare insieme il libro dei ricordi. 
 

 


Che ricordi ha di questo tunnel?

Sulle parete ci sono tanti giocatori con cui ho giocato. Certo non parto dall'inizio (1930 ndr), ma da Jaroslav Drobny, il professore, il maestro dei maestri. Poi, andando fino alla fine, ho giocato, quasi, con tutti. Qualcuno l'ho battuto, qualcuno ha battuto me. Ma è il gioco.

Che emozione era passare attraverso la Galleria dei Campioni?

Era una bella sensazione. Non vorrei parlare di Ponte dei sospiri (ride), ma quando passi di qua per andare a giocare una finale fa una certa impressione. Anche perché questo tunnel non finisce mai: negli altri posti vai subito in campo. Qui invece c'è questo lungo corridoio e poi ce n'è un altro prima di arrivare in campo. Chi dice che non ha nessun tipo di emozione, secondo me, dice una bugia. 

Ha incontrato tanti giocatori, ma chi era quello che temeva di più?

Li temevo tutti. E poi non è nemmeno una questione di timore. È una questione di rispetto o di consapevolezza che l'altro è più forte. Qui c'è tutto il tennis mondiale, da qui sono passati tutti.

Se avesse potuto rubare qualcosa a uno dei giocatori della storia del tennis, quale sarebbe stata?

Qualche tempo fa hanno fatto una classifica con i migliori colpi tra i giocatori di tutte le epoche e a me e Drobny è stata riconosciuta la migliore palla corta. Io mi ricordo la sua e, sinceramente, essere messo vicino al “professore” non è male. Budge Patty aveva una volée di dritto incredibile. A Fausto Gardini avrei voluto rubare le gambe e la voglia di non perdere. E poi Lewis Hoad. In molti, se si potesse giocare la partita della vita contro di lui, perderebbero sicuramente. Era il più forte. Mervyn Rose mi ha battuto nel 1958 in finale (nel '57 il titolo fu dello stesso Pietrangeli ndr).

Cosa c'era allora che adesso non c'è più?

Ribaltiamo la domanda. Cosa c'è oggi che all'epoca non c'era: i soldi. Vincendo nel '57 mi diedero 30 mila lire, all'incirca 500 euro. Non ci sono paragoni. 

Com'era giocare con Rod Laver? 

A me piaceva giocare con i mancini, lui lo detestava. Vi racconto un aneddoto. Quando lui mi ha battuto a Wimbledon in semifinale, Neale Fraser (mancino ndr) venne da me e mi disse: «Non ti arrabbiare, ma sono contento che hai perso». E infatti aveva ragione: in finale vinse contro Laver, hanno giocato in America e io non ci sono andato e ha rivinto Fraser. Poi io e Neale abbiamo giocato la finale della Coppa Davis e io sono riuscito a batterlo. Rod me lo dice sempre: «Meno male che abbiamo giocato una volta sola sulla terra». 

Con quante di queste persone era veramente amico?

Tra i più stretti c'erano Manolo Santana e Ilie Nastase. In generale c'era un'altra atmosfera. Stavamo molto più tempo insieme. Io stavo sempre in giro con spagnoli e messicani. Poi ero amico di tutti, a parte di qualcuno. Jan Erik Lundquist francamente, a detta di tutti, non era molto simpatico ed era ombroso. 

C'è qualcosa a cui ha dovuto rinunciare per diventare il numero uno italiano?

Ho dovuto rinunciare ai soldi. Nel giorno delle Olimpiadi del 1960 Jack Kramer, il patron del tour professionistico, mi fece firmare un compromesso e mi diede un assegno di 5.000 dollari. Mi ricordo che ero incerto se dare la caparra della casa o comprarmi una Ferrari. Alla fine non ho fatto nulla di tutto questo. Mi trovavo su un campo del Foro e iniziai a pensare che non avrei potuto più giocare la coppa Davis, Parigi, Roma: e così decisi di strappare l'assegno. 

Se potesse tornare indietro cosa farebbe e cosa non rifarebbe?

Io dico sempre che una cosa sono i rimpianti e una cosa i rimorsi. Dire che rifarei tutto, sarebbe stupido. Tutti abbiamo rimpianti. Tanti. Non essere nato cinquant'anni dopo, ad esempio, ma quello non è colpa mia (ride).

© RIPRODUZIONE RISERVATA