Bikila e i Giochi di Roma, 60 anni nel mito

Bikila e i Giochi di Roma, 60 anni nel mito
di Piero Mei
3 Minuti di Lettura
Giovedì 10 Settembre 2020, 09:30
«Fuori sembro un uomo, ma dentro sono un cavallo», aveva detto un giorno il nero al bianco. Questi lo aveva guardato: «Sì, ma non un cavallo semplice: un cavallo di razza», aveva risposto. Il nero dell’Etiopia era un soldato e poi una guardia del corpo del Negus, Hailè Sélassié; il bianco era Onni Niskanen, un ufficiale svedese che aveva il “mal d’Africa” da quando era andato laggiù, lui del Granducato di Finlandia quando questo era un’appendice della Russia zarista (era del 1910). Bikila Abebe (cognome e nome, secondo l’usanza etiope) era nato a Jato, un villaggio di pastori a 150 chilometri da Addis Abeba, il 7 agosto 1932, il giorno che a Los Angeles si correva la maratona olimpica: una coincidenza astrale. Ma a Jato nessuno sapeva della maratona, delle Olimpiadi e neppure di Los Angeles. Crebbe sull’altopiano d’Abissinia, come chiamavano ai tempi quella regione («io ti saluto, vado in Abissinia, cara Virginia, ma tornerò» cantavano gli italiani mandati dal fascismo alla conquista dell’impero e delle “faccette nere”) e lì si fece muscoli e polmoni da corridore. Gli italiani vennero e andarono, Bikila lasciò il villaggio e si arruolò nella polizia. Niskanen lo notò: giocava a basket e correva i 5000 e i 10mila metri.
RIPESCATO
Ci si poteva lavorare in quel gruppo di atleti con i quali cercava di dare corpo al desiderio del Negus: alle Olimpiadi di Roma 1960 bisognava fare bella figura. Sarebbe stata la seconda volta che l’Etiopia partecipava ai Giochi, ma Roma era Roma, con tutte le fantasiose rivincite del caso. Fu scritto al proposito: «A Mussolini erano serviti battaglioni e armi chimiche per conquistare l’Etiopia, al Negus bastò una guardia del corpo scalza per conquistare Roma». Bikila non doveva neppure esserci: era stato sconfitto alle selezioni del suo Paese, ma poi, durante l’avvicinamento ai Giochi, Wami Biratu, che quella prova aveva vinto, volle togliersi lo sfizio di una partita di calcio, s’infortunò e dovette lasciare il passo: il ripescato fu Abebe Bikila. Il maratoneta etiope prese ad allenarsi per le strade di Roma, gli teneva compagnia una Cinquecento bianca sulla quale viaggiava Niskanen. Cominciarono a tenergli compagnia anche grosse vesciche sui piedi: si tolse le scarpe e continuò ad allenarsi. Niskanen ne contava i passi: scalzo, Bikila in un minuto ne faceva sei più che da calzato. Quanti di più in un’ora? 360. In due ore 720. I 42,195 chilometri della maratona sarebbero durati almeno un quarto d’ora di più. Ottocento passi più del solito, circa. C’era da guadagnare.
NUMERO 26
Così quando il 10 settembre, giorno della gara, Onni vide Bikila prendere le scarpe, gli disse: «Non metterle, ti farebbero male, è meglio se corri senza. E Guarda solo il numero 26, nient’altro che il numero 26». Era la sera di sessant’anni fa. Bikila si muoveva guardingo tra gli altri 68 nuovi eroi di maratona; cercava, guardava, controllava, ma del numero 26 non trovò traccia. Passò la Villa dei Quintili, la Tomba di Cecilia Metella, la Porta San Sebastiano, davanti a lui si aprì la Passeggiata Archeologica. Strizzò gli occhi per vedere chi aveva davanti, ma non c’era nessuno; le luci sull’obelisco di Axum, verso il Circo Massimo, sentì dei passi dietro, si girò: non era il numero 26, ma il 185. Si sarebbe preoccupato se avesse saputo che quel numero era stato appiccicato all’ultimo momento con le spille da balia dal marocchino Rhadi Ben Abdessalam, che avrebbe dovuto portare il 26 ma lo dimenticò nel cassetto del Villaggio Olimpico. Così l’“etiope sconosciuto”, come lo definiva lo speaker, e scalzo, come lo videro tutti al Colosseo e in tv, vinse la maratona di Roma 1960. Bis quattro anni dopo a Tokyo con le scarpe. A Città del Messico, nel ’68, si ritirò al chilometro 17.
© RIPRODUZIONE RISERVATA