L'allenatore Camossi: «Jacobs può correre in 9"77»

L'allenatore Camossi: «Jacobs può correre in 9"77»
di Marco Ventura
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Martedì 3 Agosto 2021, 07:30

Fin dove può arrivare Marcell? «Dati alla mano, considerando ampiezza e frequenza, e con vento zero, a 9.77». La risposta, secca, dice tutto del tipo di allenatore che è Paolo Camossi, 47 anni, ex campione mondiale di salto triplo indoor e pluri-primatista italiano che dal 2015 si è dedicato anima e corpo a migliorare le prestazioni di Jacobs, lo ha portato a cimentarsi sui 100 metri e oltre a essere il suo coach, è il suo consigliere e la sua ombra. In una parola, inseparabili.
Camossi, il “Washington Post” insinua che i miglioramenti siano strani, troppo repentini, insomma agitano lo spettro del doping…
«Che tristezza, mi viene da sorridere. Con due record europei e due italiani in tre giorni, Marcell ha fatto praticamente 6 controlli anti-doping, e sono già diciotto quest’anno. Queste insinuazioni non meritano risposta, anche perché vengono da un Paese che ha permesso a un atleta di arrivare alla squalifica per doping, e che nella velocità ha il più alto numero di atleti bombati. Se uno migliora dev’essere per forza dopato? No, a meno che in un anno non metti dieci chili di muscoli e ti beccano positivo. La realtà è che non ci stanno a perdere. Sulla carta avevano l’oro in tasca con Trayvon Bromell, che neanche è entrato in finale; Ronnie Baker è arrivato quinto, e quello in teoria più debole, Fred Kerley, ha preso l’argento… Mi pare che finora l’unica squalificata per doping nell’atletica leggera sia una nigeriana (Blessing Okagbare, ndr), che si allena negli USA e con un americano». 
Ma questa progressione pazzesca di Jacobs come si spiega?
«Abbiamo fatto la scelta di spostarci a Roma, dove ci sono condizioni climatiche migliori rispetto al Nord e un Istituto di scienza dello sport che sta attaccato al campo. Lavoriamo con la tecnologia: fotocellule, riprese in 3D, optojump… Dietro la vittoria di Tokyo 2020 c’è un lavoro durissimo. La verità è che gli americani non accettano l’oro di un italiano nato in Texas!».
Usain Bolt resta il primatista del mondo, la star assoluta, lui stesso ha detto che non accetta paragoni con Jacobs. Come l’ha presa Marcell?
«Marcell ha detto la stessa cosa, ha visto tutte le sue gare: Bolt è Bolt, è il suo idolo, non si tocca, non c’è paragone da fare. Bolt ha vinto tutto il vincibile, fatto record fantastici, ha condotto e mosso l’atletica per anni».
Quando ha capito che Jacobs poteva conquistare l’oro?
«All’inizio Marcell provava qualche fastidio, per esempio tutto quel vento, il corpo è molto sensibile e sente tutto… Ma una percezione l’ho avuta guardandolo prima della batteria: si scaldava tranquillo, era molto allegro, faceva due passi, parlava, scherzava, era come a casa, questo mi ha fatto capire che aveva la giusta predisposizione».
Nella finale è stato l’unico a rimanere fermo dopo la falsa partenza… 

«Esatto! Marcell me l’ha proprio detto… In semifinale tutti hanno corso forte, lui ha fatto il record europeo. Prima della finale è scattato qualcosa. È andato in pista tranquillo e quando ci siamo rivisti mi ha detto: dopo la falsa partenza ero talmente sicuro e sereno di correre per vincere, che non mi ha scalfito niente. Ha corso pensando agli altri che dovevano corrergli dietro, ha trovato quella tensione che a volte brucia gli atleti, invece in lui crea energie».
La svolta quando avete deciso di passare dal salto in lungo alla velocità. Com’è andata? 
«Nel lungo aveva fatto ottimi risultati, con buone prospettive. Poi, però, ci sono state difficoltà fisiche: si faceva male, aveva problemi alle ginocchia, alle cartilagini, era più il tempo che stava fermo che quello per allenarsi e giocare. All’Europeo del 2019 a Glasgow fece due nulli, fummo eliminati. L’analisi fatta dopo la gara, come si fa sempre per correggere le cose che non vanno, fu una liberazione: non è possibile che vai lì per vincere e esci eliminato in qualificazione… Oggi ridiamo molto di quei due nulli, perché ci hanno fatto accantonare il salto in lungo. La nuova strada che abbiamo preso è diventata presto un senso unico».
Che cosa gli ha trasmesso da ex campione mondiale di triplo indoor? 
«Io ho capito che per allenare un atleta, se tu lo sei stato ad alto livello, devi prima fare il funerale dell’atleta che c’era in te.

Sono dovuto morire come atleta e rinascere come allenatore. Si può trasmettere l’esperienza, non il resto. Non il carattere. Io saltavo con cattiveria, proprio con rabbia, Marcell invece corre col cuore, con l’amore. Vince perché non si arrabbia mai».

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