Classe, vittorie e lotta al Palazzo: Viola, trent’anni senza il più amato

Classe, vittorie e lotta al Palazzo: Viola, trent’anni senza il più amato
di Piero Mei
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Martedì 19 Gennaio 2021, 07:30

«La Roma non ha mai pianto e mai piangerà. Perché piange il debole, i forti non piangono mai» disse una volta Dino Viola, il “presidente scudetto”, perché lo ricucì sulle maglie giallorosse nel 1983, quarantuno anni dopo quello di guerra. Ma la sua Roma pianse, e quanto, quel 19 gennaio 1991, un giorno triste di trent’anni fa, quando Dino Viola morì, lasciando un’eredità di successo, quello scudetto, quattro volte la Coppa Italia (e una quinta in via di conquista: di lì a qualche mese l’avrebbe sollevata per lui Donna Flora, sua moglie, gran signora e presidentessa del “subito dopo”) e quella finale di Champions che stringe il cuore romanista per dove e come venne: all’Olimpico e ai rigori. La Roma era diventata grande, e pure “maggica”, con Dino Viola presidente, padre più che padrone com’era considerato dai giocatori che andavano in campo, citati alla rinfusa, Falcao e Pruzzo, Di Bartolomei e Bruno Conti, Tancredi e Nela, Vierchowod e Toninho Cerezo, Capitan Di Bartolomei e in panchina un Barone, Nils Liedholm, l’ironia e la competenza fatte persona. E quanti altri nomi si potrebbero fare per quell’Era Viola che durò tutti gli Anni Ottanta. Un altro va fatto: Ramon Turone. Un suo gol fu l’emblema di tutto, un gol che fu annullato (e ancora si discute se dovesse esserlo o no: no, era “bbono”). Fu il simbolo del Viola contro il Palazzo che caratterizzò la sua lunga stagione presidenziale.

Una “questione di centimetri” sancì Viola. Il presidente della Juve di allora, che si avvantaggiò di quella bandierina tirata su dal guardalinee, Giampiero Boniperti, replicò con un certo spirito inglese (o da Avvocato?), facendo recapitare al senatore (Viola era stato eletto al seggio) un righello al fine di misurazione. Viola lo restituì al mittente: «Penso che serva più a Lei che è geometra, io sono ingegnere meccanico» fu la replica. Certo uno scambio assai più elegante di quel calcio nel sedere che un “tifoso” juventino di quelli chic nella tribuna autorità dello stadio loro rifilò al presidente romanista. Molto più sportivo, nel quadro di quella rivalità feroce, il lupo, cane poliziotto, che all’Olimpico addentò una coscia del difensore bianconero Brio, appena gli capitò a portata di denti. Era, quella, una Roma d’altri tempi, una squadra a tu per tu con la Juve, che era come sempre la più forte di soldi, di società, di giocatori più da prendere che non da lasciare; una Roma alla quale Viola mise su casa, creando Trigoria dove girava per i campi mentre i giocatori s’allenavano, e forse la sera era lui a spegnere la luce; girava e diceva qualcosa a ciascuno, un parlare forbito, anche quello, calcistico o no, d’altri tempi. Mica quelli d’oggi, che devi girare con il vocabolario e un manuale di finanza, quando parli di partita c’è il rischio, o forse la certezza, che sia la partita doppia. 

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