Torino, quegli invincibili sconfitti solo dal destino: 70 anni fa la tragedia di Superga

Il Grande Torino
di Piero Mei
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Venerdì 3 Maggio 2019, 09:04 - Ultimo aggiornamento: 4 Maggio, 16:09
Don Tancredi Ricca, cappellano della Basilica di Superga, stava nella sua stanza al primo piano leggendo il suo libro delle preghiere. “Alle cinque in punto della sera”, giacché quella era l’ora. L’ora in cui quindici anni prima il piccolo toro Granadino aveva incornato il grande torero Ignacio Sanchez Meijas a Manzanares, e il poeta Federico Garcia Lorca aveva scritto l’indimenticabile “lamento”. Forse anche i 31 uomini, passeggeri ed equipaggio, che volavano sul Fiat G-212 della Ali (Avio Linee Italiane), sigla I-ELCE, sballottati dai venti in quota, il resto del cielo e della terra nascosto dalla nebbia e dalla pioggia, tanto che pur essendo il 4 maggio sembrava una notte d’inverno piemontese, recitavano le preghiere che avevano imparato da bambini. E forse anche il pilota che era ai comandi, pur avendone vissute già d’ogni tipo e d’ogni paura, giacché nel corso della Seconda Guerra Mondiale aveva gonfiato il petto a cinque medaglie al valore, pregava.

Che macabro destino per il Toro e il cognome Meroni! Sarebbe poi venuto Gigi, la farfalla, travolto e ucciso da un’auto fuori dallo stadio: ma è un’altra storia. «Quota duemila metri, qdm su Pino, poi tagliamo su Superga» furono le ultime parole che Pierluigi Meroni pilota trasmise alla torre di controllo. Erano le 17.02 di mercoledì 4 maggio 1949 e da allora, domani, saranno trascorsi settant’anni esatti. Don Tancredi sentì solo il rombo dell’aereo che s’avvicinava: non ci fece quasi caso, ne passavano tanti su quella rotta. Anche Amilcare Rocco, muratore che abitava a pochi passi dalla Basilica, sentì quel rumore: il solito, pensò. Ma si fece sempre più assordante. E finì con un tonfo e un boato. Amilcare uscì di casa, si mise a correre insieme con qualche contadino che era già per strada, diretto verso il fuoco che veniva da dietro la Basilica. Quando arrivarono al bastione, videro la carlinga di un aereo infilzata nel muro. Don Tancredi era già lì che s’aggirava fra i resti. «Le maglie del Torino, le maglie del Torino» urlò uno, tirando su gli indumenti granata con cucito lo scudetto. Perché su quell’aereo che la mattina era decollato da Lisbona, dopo un’amichevole contro il Benfica per l’addio del capitano Francisco Ferreira, viaggiava il Grande Torino.

GLI SCAMPATI
Ce n’erano di quelli della squadra o dintorni che erano divenuti leggenda che per le solite fortuite casualità del Destino erano rimasti a casa: il secondo portiere Gandolfi, che aveva dovuto lasciare il posto al terzo numero uno, Dario Ballarin, probabilmente raccomandato per un viaggio premio dal fratello Aldo; il radiocronista storico Nicolò Carosio, impegnato con la Cresima del figlio; il presidente Ferruccio Novo, a letto con l’influenza; il ragazzo Primavera Luigi Giuliano che non riuscì ad ottenere per tempo il passaporto, come un disguido burocratico tenne a Roma l’invitato Tommaso Maestrelli, l’inventore poi del primo scudetto della Lazio: era in predicato di passare al Torino la stagione successiva ed era stato Valentino Mazzola a volerlo per Lisbona. Ma c’erano tutti quelli che l’Italia amava in blocco, e non perché fossero tutti torinisti i tifosi, ma perché loro erano tutti azzurri (anche 10 su 11 in campo) e perché giocavano un calcio insieme straordinario e vincente. Dal ’43 al ’49 vinsero sempre lo scudetto. Storia di altri tempi, anche loro farebbero fatica a trovare il consenso spontaneo e sincero di allora (un milione di persone al funerale), in un calcio, quello attuale, che si divide per ogni cosa.

VALENTINO E GLI ALTRI
Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola: era la formazione. Settant’anni fa non c’era la “rosa” e gli undici erano undici e s’imparavano a memoria, come le poesie di Carducci, Pascoli o Leopardi. Oggi molti di quei cognomi sono i nomi degli stadi dei loro luoghi natali, che così li onorano e ricordano. Bacigalupo parava anche i rigori, pure se il primo gol che prese in serie A fu su penalty, ma lo tirava Silvio Piola; avevano i loro nomignoli: c’era il “Trio Nizza”, i tre che dividevano l’appartamento in via Nizza; c’era il “cit”, il più piccolo (Maroso), c’era il “Barone” (Gabetto, il più elegante: mai un capello fuori posto). Valentino Mazzola, il più celebre e celebrato (c’è chi pensa che sia stato il miglior calciatore italiano di sempre, certo il più completo: una volta che sostituì in porta nei minuti finali l’espulso Bacigalupo, salvò il 2 a 1 contro il Genoa), è diventato lui stesso un “nomignolo”: José Altafini, in Brasile, lo chiamarono Mazzola per via di Valentino. Lui da ragazzo lo chiamavano “Tulen”, barattolo in dialetto, perché faceva tutta la strada da casa al lavoro e viceversa calciando una lattina vuota: per questo imparò a farlo di destro e di sinistro, tanto che, diceva Boniperti, «non puoi dire se fosse destro o mancino». Arrivarono a Superga, altezza 600 metri, Meroni ci finì dentro giacché la strumentazione di bordo s’era bloccata sulla quota 2000, vigili del fuoco, ambulanze e popolo. Popolo d’ogni maglia. Arrivò anche l’ex commissario tecnico Vittorio Pozzo che dovette riconoscere i poveri corpi: da una cravatta, da un orologio, da un piede. Nel silenzio, la gente guardava la carlinga, l’ultimo pneumatico che bruciava, la chioma bianca di Pozzo. Lui si sentì toccare la spalla da un gigante in impermeabile bianco lungo fino alle caviglie. Il ragazzo aveva gli occhi rossi e disse soltanto «Your boys», «i tuoi ragazzi». Era John Hansen, danese che giocava nella Juve. Non ci fu maglia né tifo che tenesse, alle cinque in punto nella sera o poco dopo. Don Tancredi Ricca ora pregava e benediceva.
 
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