Scudetto Roma, sono vent'anni. Come un matrimonio, ma non finisce mai...

Vent'anni di scudetto. Come un matrimonio, ma non finisce mai...
di Enrico Vanzina
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Giovedì 17 Giugno 2021, 08:04 - Ultimo aggiornamento: 19 Febbraio, 16:44

Il 17 Giugno del 2001, verso le ore 18, se qualcuno è passato in via Mercadante ha sicuramente visto un cinquantenne matto, sudato, scapigliato, che cantava svociato a squarciagola «Grazie Roma», sventolando in strada un bandierone giallorosso: quel matto ero io. Il tutto accompagnato dai clacson delle auto dei tifosi romanisti che avevano iniziato una grande festa popolare. Una festa che durò circa un mese.

Avevamo battuto il Parma ed eravamo Campioni d'Italia. Io piangevo, avevo il cuore gonfio di emozione, non ci potevo credere. Esattamente dopo l'anno dello scudetto (meritato) della Lazio, in cima al calcio italiano c'eravamo saliti noi.

Iniziava il terzo millennio e noi avevamo acciuffato il nostro terzo scudetto. Oggi, vent'anni dopo, con la stessa emozione di allora, penso che mai scudetto fu più entusiasmante. Merito di Franco Sensi che si era svenato per comprare l'immenso Gabriel Batistuta a 70 miliardi. Merito del grande Fabio Capello, del magico Francesco Totti, di Vincenzo Montella, Cafu, Zago, Emerson, Antonioli, Zanetti, Aldair, Samuel, Zebina, Tommasi, Delvecchio, Nakata, del mio amato Vincent Candela, merito dei tifosi innamorati senza se e senza ma di questa squadra, merito di una città che aveva avuto la pazienza di attendere.

Mentre sventolavo la bandiera in via Mercadante, mi passava sotto agli occhi quel lungo e meraviglioso campionato. Ventidue vittorie, nove pareggi e tre sconfitte. Che alla fine bastarono per superare la Juve di Del Piero e Zidane di soli due punti. Rivedevo Montella e Nakata segnare a Torino, regalandoci di fatto un sogno quasi impossibile. E io che al gol di Nakata saltai in aria e diedi una gomitata a un mio amico canottiere grosso come Maciste e lo stesi. E lui dolorante si rialzò e invece di menarmi mi baciò. Rivedevo l'autogol di Paolo Negro nel derby, viatico piovuto dal cielo come destino favorevole.

Rivedevo le mie trasferte a Udine, a Parma, a Bologna. E le sconfitte a Milano e Firenze che mi avevano fatto tremare. Rivedevo il mio amico Paolo, notaio assatanato, che abbracciandomi sugli spalti mi aveva detto «la Roma è la cosa più bella del mondo». E mio fratello Carlo che una mattina alle sei e mezza mi telefonò e mi disse «l'ho sognato». E io chiesi «chi?». E lui «lo scudetto fidati quest'anno viene a vivere a Roma». Ci venne. In grande stile. Dicono che gli scudetti sono tutti uguali. Non è vero. Quello valeva triplo, quadruplo. Era il risarcimento danni ai nostri cuori che da anni battevano a mille e avevano rischiato di scoppiare.

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Non so se ho provato più gioia quel 17 giugno in via Mercadante o quella domenica di maggio, nel 1983, quando, alla fine della partita contro il Genoa, insieme a un gruppo di altri invasati mi arrampicai sulla rete dello stadio di Marassi e al fischio finale invasi il campo urlando «campioni d'Italia!».
Due momenti indimenticabili della mia vita. Chi non è tifoso non può capire. Ma è così. Il giorno dello scudetto vale come quello di un matrimonio. Solo che un matrimonio può finire, invece l'amore per la Roma mai. Forza Lupi for ever.
 

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