Di Bartolomei resta un Ago nel cuore di tutti

Di Bartolomei resta un Ago nel cuore di tutti
di Romolo Buffoni
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Mercoledì 8 Aprile 2020, 17:33 - Ultimo aggiornamento: 19:18

Il 30 maggio 1994 erano trascorsi dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni Roma-Liverpool. Scelse quel giorno Agostino Di Bartolomei per togliersi la vita. Si sparò un colpo di pistola al cuore nella veranda della sua villa a San Marco di Castellabate, sulla costa del Cilento. Agostino aveva 39 anni. Oggi ne avrebbe compiuti 65 e, magari, avrebbe trascorso la giornata a rispondere a telefonate e messaggi di auguri dei tifosi e di richieste d'intervista dei giornalisti. Contatto possibile a pochi, però. Perché Di Bartolomei non sarebbe mai potuto diventare "social". Serio, riservato, misurato con le parole scandite anche attraverso il tono di voce, né troppo alto né troppo basso. Diba, come lo chiamavano i tifosi, è il tormento dei tifosi romanisti che lo videro giocare e anche di quelli che lo hanno conosciuto solo attraverso filmati e racconti. I primi non possono non fare i conti con un senso di colpa verso Ago, dimenticato troppo in fretta quando se ne andò al Milan, poi al Cesena e infine alla Salernitana. I più giovani, invece, non possono non invidiare coloro che si sono goduti un Capitano romano, romanista fin dentro alle viscere, capace di guidare la squadra a scrivere il suo nome nella storia del calcio.

In questi giorni di vita sospesa causa coronavirus, poi, le tv stanno dando fondo alle immagini d'archivio e alle storie del calcio che fu. E gli anni 80 furono gli anni di Di Bartolomei al quale mancò solo la maglia azzurra per realizzarsi al 100 per cento. La sua Nazionale fu la Roma, con la quale vinse lo scudetto nell'83 e sfiorò la Coppa dei Campioni nell'84. Il suicidio avvenuto proprio nel decennale di quella dolorosa sconfitta ai rigori all'Olimpico contro il Liverpool fece pensare al suo amore per la Roma, tradito. Agostino se ne era andato dopo quella terribile beffa, seguì il Maestro Liedholm al Milan. I numeri della sua carriera sono arcinoti e a portata di clic. Nel ricordarlo il giorno di quello che sarebbe stato il suo 65° compleanno, vale la pena descrivere con parole più vicine possibili alla verità il suo distacco dalla Roma.

Oggi giustamente i tifosi ne hanno fatto un'icona di romanismo autentico ed eroico, ma i suoi contemporanei si nascondono nell'ipocrisia quando fingono di non ricordare che Agostino era stato dimenticato. I motivi del suo insano gesto non sono mai stati noti. Si parla di una lettera strappata ritrovata vicino al cadavere. Il perché autentico è rimasto un interrogativo che ha tormentato la vita della moglie Marisa e del figlio Luca, prima di chiunque altro. I suoi dolori privati è giusto lasciarli per sempre sepolti. Quelli legati alla sua figura di campione, però, non possono prescindere dalla delusione verso il club la cui maglia aveva cucita addosso come una seconda pelle che lo aveva lasciato laggiù, nel suo esilio volontario di San Marco. Probabilmente fu anche "colpa" sua, tanto serio e riservato da apparire presuntuoso. Tante leggende accompagnarono il suo addio a Trigoria, la fantomatica lite con Falcao quasi picchiato per non aver voluto tirare il rigore contro il Liverpool su tutte. Leggende appunto.

Però rancore verso la Roma ci fu. Oggi quando gli ex fanno gol ai loro vecchi compagni non esultano e, anzi, in qualche caso si scusano. Una moda imposta da Batistuta dopo la sua rete alla Fiorentina con la maglia giallorossa. Nell'84, quindi, non era strano veder gioire un giocatore dopo una rete ai suoi ex. Ma Ago esagerò quel pomeriggio a San Siro quando, alla prima occasione, scaraventò il pallone alle spalle di Tancredi. La sua corsa verso la ringhiera che allora separava il parterre di San Siro dal campo, non fu normale per uno come lui. Tanto è vero che fu in quell'istante che un giovanissimo Sandro Piccinini nella sua radiocronaca per Teleroma 56 coniò una delle sue frasi caratteristiche: "proprio lui!". Già, proprio Agostino. E nel Roma-Milan di ritorno la festa annunciata dall'enorme striscione "Bentornato capitano" e dal coro "Oh Agostino! Ago, Ago, Ago, Agostino gol!" venne rovinata dal "vaffa..." che l'Olimpico gli urlò all'unisono nel finale, dopo una lite con Ciccio Graziani. Il Milan vinse con un gol di Virdis che Diba difese con le unghie, con i denti e... con i pugni. Troppo per 80mila amanti con cuore in mille pezzi.
 

 


Ma Agostino non era un ruffiano. Non organizzò cene riconcilianti con chi poteva essere utile a farlo tornare alla Roma, magari a dare una mano nello svezzare i giovani calciatori cosa per cui si sentiva portato (scrisse anche un decalogo ancora molto attuale). Non si lanciava in ospitate televisive per dire «ehi, sono qui eh? Perché non mi chiamate a lavorare?». Di Bartolomei se ne stava lì, nel Salernitano, ad aspettare che qualcuno si ricordasse chi era e cosa significava per quella maglia. Del Capitano che quella volta riuscì a condurre in porto il "vascello giallorosso" e la volta sucessiva no, ma ci andò molto vicino. Di chi disse: «Ci sono i tifosi di calcio e poi ci sono i tifosi della Roma», con quella Curva Sud custodita gelosamente con una foto nascosta nella sua agenda personale. La verità è che nessuno si ricordò di lui. Ma poi tutti si voltarono al rumore di quello sparo e stavolta non lo guardarono semplicemente, ma lo videro. Per questo la Roma e i romanisti oggi portano in alto il nome di Agostino Di Bartolomei, sventolandolo come l'enorme bandiera che è ma che era stata arrotolata e messa via. Almeno la lezione non andrebbe dimenticata.
 

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