Pelé, Zico: «Con lui è morto il calcio. Poteva guidare la Nazione, lo avrebbero votato in massa»

Il fuoriclasse carioca rifiuta il paragone con il mito del Santos: "Io il Pelé bianco? Lui è stato unico, un genio come Mozart"

Pelé, Zico: «Con lui è morto il calcio. Poteva guidare la Nazione, lo avrebbero votato in massa»
di Stefano Carina
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Sabato 31 Dicembre 2022, 07:17 - Ultimo aggiornamento: 2 Gennaio, 14:02

E' il calciatore che nell'immaginario popolare brasiliano, è andato più vicino a ricordarlo in campo. Tanto che per anni, Arthur Antunes Coimbra, più conosciuto come Zico, leggenda vivente del calcio verdeoro, è stato soprannominato il Pelé bianco. Alla soglia dei 70 anni, che festeggerà il prossimo 3 marzo, guai però a ricordarglielo.

Appellativo che non le piace?
«No, no no...

La prego. Non parliamo di questa cosa, non mi è mai piaciuto. Questo soprannome è stato un peso in tutta la mia carriera. La gente andava allo stadio pensando di andare a vedere di nuovo Pelé e invece trovava un altro giocatore. Ma come me anche altri hanno sofferto questo paragone. Io probabilmente più di tutti, perché ero della generazione successiva a quella della terza coppa Rimet, vinta contro l'Italia nel 1970. Chiaramente lui non c'entrava nulla, anzi con me è stato sempre carino, prodigo di consigli. Ma Pelé è stato unico e né io né altri ci siamo potuti avvicinare. Nella storia c'è stato Mozart, in un'altra epoca i Beatles ma erano unici. Imparagonabili, geni assoluti. E la stessa cosa è nel calcio: Pelé è stato unico. Ci sono stati altri calciatori che hanno fatto cose stupende, però Pelé è Pelé. Il re del calcio».

Qual è il primo ricordo che ha di Pelé?
«Quando ero bambino. Tra poco compirò 70 anni e negli anni 60' uscì un album di figurine nel quale venivano spiegati i gesti tecnici del calcio, con soggetto Pelé. Si andava da come stoppare il pallone alla postura nel momento del tiro, da come colpire la palla di testa al dribbling. Mi ricordo che riuscii a completare la raccolta che ancora conservo. E ora che ci penso è la prima cosa che mi ha insegnato. Dopo, quando avevo 15-16 anni, nei mondiali del 70' ero incollato alla televisione con i miei amici al bar del quartiere a vedere i movimenti, a provare a rubargli dei segreti. Ricordo che una volta finite le partite, provavo subito a emularlo. E come me, migliaia di ragazzini».

In cosa eccelleva Pelé?
«In tutto. Quando Dio ha deciso di creare un calciatore, ha dato a Pelé tutte le qualità possibili. E lui lo ha ringraziato, diventando il numero uno del mondo. A me quello che impressionava era come scattava, si fermava, e poi ripartiva alla stessa velocità, avendo nel frattempo stoppato il pallone e già dato il via alla giocata. Era incredibile: con il destro, il sinistro, di testa, non aveva punti deboli».

C'è un gol che è rimasto nel suo immaginario?
«Sì, il secondo segnato alla Cecoslovacchia nel mondiale del 70'. Gerson ha fatto un lancio lungo e Pelé è saltato e ha stoppato la palla in volo sul petto, poi l'ha lasciata cadere e ha calciato. Tutto in velocità, una giocata pazzesca. Come del resto era lui».

Come sta vivendo il paese questa scomparsa?
«Anche se le condizioni di salute le conoscevamo tutti, è stato comunque un brutto colpo. Mi dispiace per lui, che nell'ultimo periodo ha avuto una qualità di vita molto bassa e per la sua famiglia che sentirà la mancanza. Ha sofferto molto, è dovuto rimanere a casa a lungo per poi iniziare un via-vai con l'ospedale continuo. Una vita difficile, non da Rei. È chiaro che la speranza di tutti fosse quella di un recupero miracoloso. Purtroppo però la vita non guarda in faccia nessuno, nemmeno un mito come Pelé. Ora può finalmente riposare in pace. Per noi brasiliani è come se fosse morto uno di famiglia. Anzi, di più. È morto il calcio. La sua scomparsa permetterà alle nuove generazioni di capire cosa è stato Pelé. Da due giorni in Brasile non si parla d'altro, ovunque. In radio, in televisione, programmi fiume. Purtroppo, e l'ho capito anche a mie spese, la gente vive molto il momento. E quando arrivano fatti del genere, si rispolvera il mito che invece dovrebbe essere sempre ricordato. Siamo molto orgogliosi di tutto quello che ha fatto per il calcio e per il Brasile. È stato il numero uno al mondo, non credo che nella storia ce ne sarà un altro uguale. Il calcio ha perso il suo Re».

Il Santos sta valutando se ritirare la maglia numero 10, è d'accordo?
«No, per nulla. Quel numero deve rimanere un punto di riferimento per i ragazzi che hanno il sogno di diventare un giorno un campione e vestire quella camisa'. E sarei stato contrario anche se il Flamengo me lo avesse proposto quando mi sono ritirato. Il rispetto non si dimostra così».

Numero uno in campo e anche fuori. Nominato ambasciatore delle Nazioni Unite per l'ecologia e l'ambiente nel 1992, nel 1995 divenne ministro straordinario per lo sport. Secondo lei avrebbe potuto ambire anche a diventare presidente della Repubblica brasiliana?
«Sì, senza dubbio. Il problema, magari, è che quando vai in un'altra sfera di competenza, bisogna capirne le dinamiche, bisogna studiare. Ma lui lo avrebbe fatto, sono certo. Ad esempio quando è stato ministro dello sport, è stato bravo a muoversi in un ambito che conosceva e infatti è riuscito a far approvare una legge per ridurre la corruzione nel calcio brasiliano. Si chiama proprio legge Pelé'. Per conoscenze, appeal, importanza, basti pensare che è stato ricevuto da tutti i più importanti capi di stato del mondo, avrebbe potuto certamente diventare un ottimo presidente. Si sarebbe dovuto circondare di un grande staff, ma chi non avrebbe voluto lavorare con lui? E il popolo lo avrebbe votato in massa. Perché o Rei sarà sempre il Re, il nostro Re».

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