Nell'era del digitale, l'arbitro resta solo un uomo

Nell'era del digitale, l'arbitro resta solo un uomo
di Alessandro Catapano
3 Minuti di Lettura
Mercoledì 19 Gennaio 2022, 01:35

Prima di Serra, fu nientepopodimeno che il pelide Achille. «Scoppiando in pianto sedette lontano dai compagni, in disparte (…)/ e molto implorava la madre, stendendo le mani...». Nell’Iliade, Achille piange di rabbia e di dolore. Deve andare in guerra per riparare a un torto subito da altri, Agamennone gli toglie Briseide, muore il suo amico Patroclo, si avvicina l’ora della sua morte. Piange di collera, perché è impotente di fronte alle ingiustizie. Ma sono tutti gli eroi omerici a versare lacrime abbondanti. Così forti e coraggiosi, non hanno ritegno ad abbandonarsi al pianto più sfrenato, nelle alterne vicende della guerra. 

Ecco, con le dovute proporzioni e tenendo sempre bene a mente che di una partita di pallone parliamo, anche nelle alterne e spesso fin troppo bellicose vicende del calcio, imparare il valore umanissimo delle lacrime significa darsi la nobilissima capacità di coltivare, in talune circostanze, non solo l’ambizione, la continua ricerca della vittoria, ma anche la compassione verso l’altro (a volte anche verso se stessi). E del resto, si dice che le perle nascano dal dolore, e non è una perla luminosa quanto una sua rovesciata l’abbraccio che Ibrahimovic - forse il più omerico degli eroi del pallone - dona al lacrimoso Marco Serra, per consolarlo di un errore che sa, irrimediabilmente, gli rovinerà la carriera? Sono lacrime di dolore e paura, queste, ma le apprezza anche un guerriero come Zlatan.

E anche gli altri, i compagni del Milan, non infieriscono, anzi. Provano subito umanissima compassione. A Rebic, un tipo che non ti augureresti di incrociare di notte in un vicolo buio, basta una frazione di secondo, il tempo di incrociare gli occhi già smarriti del Serra, per stringerlo a sè, in un impeto di condanna che già contiene il perdono, come fa il padre con il figlio: «Che hai combinato ragazzo mio?».

E chissà che da questo male non si ricavi del bene, come sosteneva Sant’Agostino, e che dall’errore di Serra e dalla solidarietà umana, francamente mai vista, che ha generato, non nasca un nuovo modo di stare sul campo di calcio, che somigli un po’ di più al modo di stare al mondo, almeno tra persone civili, cioè nel rispetto delle regole, degli avversari, degli arbitri, compagni di ventura (anzi, spesso di sventura) che sbagliano come noi, né più né meno. E possono anche piangerne, con le stelle lacrime che versiamo noi quando falliamo un rigore decisivo, o il gol di una vittoria importante. Chissà, un giorno ci ricorderemo di Marco Serra della sezione di Torino, impiegato di 39 anni, arbitro dalle alterne fortune ma dal facile pianto. Non greco, ma sincero. E tanto bastò a commuovere gli dèi del calcio.

© RIPRODUZIONE RISERVATA