Morro Maradona, Dio del calcio dal cuore napoletano. Una vita tra trionfi e cadute

Morro Maradona, Dio del calcio dal cuore napoletano. Una vita tra trionfi e cadute
di Piero Mei
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Mercoledì 25 Novembre 2020, 18:08 - Ultimo aggiornamento: 26 Novembre, 00:14

Addio Diego. Un attacco cardiorespiratorio ha fermato per sempre il cuore di Maradona, che aveva fatto battere quelli di tutta Napoli, di tutta l’Argentina e di mezzo mondo. Aveva compiuto 60 anni il 30 ottobre. Aveva tenuto un’altra volta tutti con il fiato sospeso per la sua salute perché era appena stato operato al cervello, la rimozione di un ematoma, che si diceva, si era procurato in casa, forse perdendo i sensi per uno di quei cali di pressione che ormai lo perseguitavano, o forse per un inciampo, il peggiore della sua vita che pure ne aveva incrociati tanti, il classico genio e sregolatezza. Di lui e dei suoi piedi magici diceva Platini, che di magie calcistiche s’intendeva, “fa come me con il pallone, solo che lui può farlo con una arancia”. Può darsi, pensavano i più, anche con un mandarino o addirittura con una nocciola.

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Se n’è andato il più grande di sempre, canteranno addolorati quelli che per una vita hanno intonato che “Maradona è meglio ‘e Pelè”. Chissà se fosse migliore o no di O’ Rey, è una questione di gusti.

Certamente è stato un re del calcio, un re di Napoli, capace di regalare alla splendida città con il Vesuvio, il pennacchio più amato: lo scudetto del calcio, anzi due. Era argentino, Diego, ma era napoletano dentro. La città lo aveva conquistato e lui aveva conquistato quella. Nascevano tabernacoli per la fede in lui: chi conserva ancora un capello, chi ne indossa ancora, e sono passati quasi trent’anni, la maglia.

Una notte magica del mondiale italiano il cuore napoletano si spezzò in due perché Maradona affrontò al San Paolo l’Italia con la sua Argentina e la eliminò: non fu una notte di “lacrime napulitane”. Nella finale di Roma l'Italia gliela fece pagare fischiando l’inno suo e lui personalmente.


Certo l’impresa dei due scudetti a Napoli è stata per tutti noi quella della vita del “Pibe de oro”, il “golden boy” di casa loro; in Argentina magari penserebbero al mondiale dell’86, quello vinto con un “gol da cineteca” e uno da “truffatore d’area”; il primo contro l’Inghilterra dribblando l’intero esercito in campo di Sua Maestà perché c’era da vendicare le isole Malvine, che gli inglesi chiamano Falkland e i sudamericani persero la guerra; il secondo, sempre lì, segnando di mano. La “mano de Diòs” diceva lui, la mano di Dio. E la camera ardente l'allestiranno per lui alla Casa Rosada, in Plaza de Mayo, la casa del presidente della Repubblica. 


In altre mani, purtroppo, s’era anche messo Diego, già quando aveva lasciato l’Argentina ed era a Barcellona: quelle degli spacciatori di cocaina. La droga fu la sua avversaria e dopo ci lottà contro, ma ormai era fatta. Fu squalificato per quello. Tornò e fu squalificato per altro, quelle sostanze che gli consentivano di dimagrire e di tenersi su ugualmente. Accadde durante Usa ’94. Lottava contro i Poteri Forti mondiali del calcio, che giudicava corrotti (non da solo) e che altro non aspettavano che pizzicarlo, e lui non fece niente per evitarlo.
Ora s’avviava al tramonto in campo. Ne uscì per sedersi in panchina, ma non fu un trono regale, anche se, ormai vittima del personaggio clownesco (nobilissima arte al circo) se n’era fatto un trono.


Altezze e bassezze di una vita esagerata; innocenti evasioni, ma anche evasioni molto colpevoli, compresa quella fiscale in Italia. Amico dei potentissimi come Fidel Castro ma anche dei poveri cristi dei Quartieri Spagnoli. Diego non faceva differenze, vivaddio: era lui a fare la differenza in campo.


Mogli, compagne, figli, intorno una corte dei miracoli e anche brave persone; Napoli persa d’amore per lui, e vincente contro tutti. La Napoli di Masaniello sì, ma anche quella di Eduardo; la Napoli di Totò sì, ma anche quella di Massimo Troisi. La “Napule mille culure” di Pino Daniele. Per Maradona, Napoli ebbe un colore solo: il colore della vittoria.

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