«We want Jack!», quando Charlton perse conquistando l'Olimpico

Morto Jack Charlton
di Romolo Buffoni
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Sabato 11 Luglio 2020, 15:23
Avere vent'anni è bello in senso assoluto. Averli avuti negli anni Novanta, in Italia, è stato speciale. La fine della guerra fredda, l'abbattimento del Muro di Berlino, la sensazione di andare incontro al futuro, con in mano i primi costosissimi telefoni cellulari che contribuivano a farci credere che le distanze erano azzerate: né Est né Ovest, né Nord, né Sud, tutti fratelli e sorelle cittadini del mondo in un benessere capace di crescere su se stesso all'infinito. C'era da fare l'Europa, da cancellare confini e barriere. Nel Vecchio Continente avremmo più o meno presto parlato l'esperanto e, nel giro di una decina d'anni, avuto tutti in tasca la stessa moneta: via la povera liretta, avanti al ricco euro. Il tasso di conversione? Una semplice formalità finanziaria... 
L'Italia nel 1990 ospitò i Mondiali di calcio, del "suo" calcio. Lo sport più popolare del mondo da noi aveva la sua residenza principale e la penisola a forma di stivale non ne è la più ineluttabile delle dimostrazioni? L'inchiesta Mani Pulite doveva ancora deflagrare, Silvio Berlusconi era ancora soltanto un brillante imprenditore che con le sue televisioni "private" stava rivoluzionando il mondo della comunicazione e dell'intrattenimento. Tutti noi ventenni "dovevamo" essere belli, felici e vincenti. Una sensazione di euforia indotta, un doping sociale del quale, poi, avremmo pagato le conseguenze. Ma i Mondiali, nonostante l'orribile mascotte Ciao e gli scandali dei costi gonfiati (e dei morti nei cantieri) per il rifacimento degli stadi, furono un grande spettacolo.
L'Italia andò avanti come un treno, spinta dai gol di Salvatore Totò Schillaci, occhi spiritati a ognuno dei 6 gol che lo resero da riserva che era capocannoniere della manifestazione. Treno che deragliò a Napoli, disarcionato da Re Diego Armando Maradona. Arrivarono terzi gli azzurri. Nell'ultima tappa all'Olimpico di Roma, prima della fatal semifinale, l'Italia aveva eliminato la sorprendente Irlanda: Eire, come viene chiamata la Repubblica d'Irlanda per distinguerla dall'Irlanda del Nord. Per separare anche a parole Dublino da Belfast. I verdi con il trifoglio sul petto si erano spinti dove non mai, guidati in panchina da un inglese ma un inglese speciale diventato un fratello per gli irlandesi.
Tastai di persona l'affetto che la gente di Dublino e dintorni provava per Jack, Jackie, Charlton, seguendo quell'Italia-Eire nel settore destinato a loro, zeppo di un tricolore simile al nostro con l'arancio al posto del rosso ma carico dello stesso calore. Una passione scaldata non dal sole Mediterraneo, ma da quantità industriali di pinte (Guinnes, o course). Tifarono dal 1' al 90'. Il gol di Schillaci li ammutolì un momento solo. Vibrarono di emozione quando il loro bomber Quinn sfiorò il pari in una partita per lui indecente, ma lo applaudirono quando lasciò il posto a Cascarino. Niente fischi o buu di contestazione: era un ragazzo di Jackie, lui lo aveva scelto e quindi andava sostenuto. Charlton era lì in piedi, vicino ai suoi guerrieri. Fino alla fine e all'eliminazione. "We want Jack, we want Jack" cominciarono a cantare i tifosi irlandesi. Un canto incessante che ebbe successo, perché Jackie venne sotto il distinto sud a salutarli e loro impazzirono di gioia. Oggi si sentiranno persi nel doverlo salutare per sempre.
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