Lazio, Giannichedda: «L'affiatamento sarà arma in più. Stipendi? Juve ha dato l'esempio»

Lazio, Giannichedda: «L'affiatamento sarà arma in più. Stipendi? Juve ha dato l'esempio»
di Valerio Cassetta
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 1 Aprile 2020, 22:30
Studia, legge, si dedica alla famiglia e rispetta tutte le regole per contrastare l'emergenza Covid-19. Giuliano Giannichedda, 45 anni, tecnico della Rappresentativa della Serie D, non ha dubbi: «Per un atleta stare fermo 60 giorni può essere un problema, ma la salute viene prima di tutto». L’ex centrocampista di Lazio e Juventus è convinto che ogni decisione sulla ripresa delle attività, dagli allenamenti ai campionati, «vada ponderata e presa finché non ci sarà un effettivo calo dei contagi».

Giannichedda, come sta vivendo questo momento?
«A casa con la famiglia. Si studia, si riguardano le partite, si legge. Poi alleno mio figlio, che gioca a calcio, e sto con mia figlia che fa danza, ma non ballo (ride, ndr)».

E’ complicato allenarsi in casa?
«Le regole che valgono per i bambini sono più o meno le stesse degli adulti. Ci si allena a corpo libero, speed ability e con esercizi propriocettivi. Ovviamente chi ha spazio è avvantaggiato, mentre chi non lo ha deve cercare di tenere i muscoli attivi arrangiandosi».

Alcuni giocatori dispongono di palestre vere e proprie nelle rispettive abitazioni.
«Il tapis-roulant o la cyclette costituiscono dei palliativi. La cosa che manca di più ai giocatori, oltre ai compagni, è il campo, che poi è l’allenamento migliore. Lo stimolarsi a vicenda durante le sedute fa la differenza così come l’affiatamento. Questo aspetto però non dovrebbe riguardare la Lazio: i biancocelesti giocano insieme da tanti anni e non avranno problemi a ritrovare la coesione. Certo, bisogna tenere conto anche dello stato d’animo».

Qualcuno dice che il calcio abbia dato un segnale tardivo, non sospendendo subito la Serie A. E’ d’accordo?
«Parlare dopo è sempre facile. Nessuno si aspettava che un’epidemia potesse scoppiare così violentemente in Italia. Il calcio ha cercato di tranquillizzare la gente. A posteriori è facile parlare. Va detto che anche per la vita normale è stato così. All’inizio non ci si capiva molto, qualcuno parlava di semplice influenza, mentre altri no». 

Però c’è tanta voglia di tornare alla normalità. La ripresa degli allenamenti potrebbe essere il primo passo?
«E’ difficile dirlo. Aprire il calcio e non aprire altre aziende mi sembra un controsenso. Aprire gli allenamenti, anche due giocatori alla volta, vuol dire coinvolgere gli addetti alla sicurezza e tante altre persone. Le scelte vanno ponderate finché non ci sarà un effettivo calo dei contagi. Nel Centro-Sud la situazione sembra essere più tranquilla. Ma a Milano? A Bergamo? Solo i dottori possono esprimersi e, anzi, vanno ringraziati. Loro si rendono conto del pericolo e della difficoltà. Se si contagiasse un altro giocatore ad allenamenti ripresi, cosa succederebbe? Credo che tutti abbiano la voglia di tornare alla normalità. Poi è ovvio: non allenarsi per tutto marzo e tutto aprile, restando fermi 60 giorni, è un problema per gli atleti».

Che scenari si aspetta?
«Tutti vorrebbero tornare giocare, dai giocatori agli appassionati. Il calcio è uno sport sociale, viene abbracciato da tutti. Giocare a calcio vorrebbe dire tornare alla normalità. Farlo a luglio e agosto potrebbe andar bene, ma con il rischio di pregiudicare anche la prossima annata? Bisogna considerare due aspetti: il livello economico e il livello sportivo. Non giocare, a livello economico, sarebbe grave per tante squadre. Poi bisogna preoccuparsi di tutte le serie del calcio e sappiamo quanta gente giri intorno a questo mondo. Se il calco riapre, deve riaprire tutto, non solo una parte. Sotto il profilo sportivo sportivo, invece, occorre vedere se i giocatori sarebbero disposti a giocare a giugno e luglio, magari rinunciando alle vacanze. Credo che non sarebbe un problema. Mancano 13/14 partite, che sembrano poche, ma in due mese sono tantissime, senza contare le coppe. In ogni caso, la salute viene prima di tutto».

Questione stipendi. La Juventus ha già travato accordo di massima con i giocatori per tagliarli.
«La Juve ha fatto una scelta precisa, un esempio per tutti quanti. Va fatta però distinzione per ogni divisione calcistica. I giocatori della Juve hanno dimostrato grande sensibilità e hanno aiutato la società, sono stati grati al club. Penso che anche altri faranno così».

Se dovesse finire così il campionato, sarebbe giusto assegnare scudetto alla Juventus?
«Se dovesse finire così, non assegnerei lo scudetto alla Juventus, ma terrei conto delle posizioni cristallizzate in classifica per partecipare alla prossime coppe europee. Mancano troppe partite e poi, per il titolo, la Lazio è lì, a meno uno dalla Juventus. E’ una cosa mai successa. Play-off? E’ un’ipotesi che vuol dire comunque allenarsi e giocare. Perché Lazio e Juventus però dovrebbero rimettersi in gioco per lo scudetto con la terza, la quarta o la quinta in classifica? Poi bisognerebbe capire cosa fare per la parte bassa della classifica».

In ogni caso, riprendere il campionato sarebbe come iniziare un nuovo torneo?
«Quello che sta accadendo è una cosa imprevedibile e mai verificata. Sarebbe un’incognita. I valori tecnici sono conosciuti, ma a livello di squadra le situazioni cambiano. Ad esempio, la Lazio che veniva da un filotto di partite, potrebbe ripetersi? Lo stesso vale per la Juventus, prima in classifica. E poi, chi gioca in coppa potrebbe essere svantaggiato, dovendo giocare più partite ravvicinate, oltre a quelle della Serie A».

Con lo stop delle attività sportive, come è la giornata di un selezionatore?
«Mi dispiace per alcuni ragazzi che si stavano mettendo in luce quest’anno. Con il computer vedo un po’ di giocatori che ho già avuto. Poi mi documento e leggo qualche libro, come la biografia di Guardiola e di Ancelotti».

Lei vive a Roma. Ha la percezione che i romani stiano rispettando le disposizioni per limitare i contagi?
«Per quanto mi riguarda esco molto poco e non vedo tante persone in giro. La mia zona (Roma Nord, ndr) per fortuna ha capito la pericolosità della situazione. Lo sforzo è comune. Uscire è una mancanza di rispetto per chi lotta tra la vita e la morte, e anche per gli infermieri e per i medici».
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