Dal 2006 a oggi, quattordici anni dopo la vittoria mondiale: resta l'orgoglio di essere l'Italia

Dal 2006 a oggi, quattordici anni dopo la vittoria mondiale: resta l'orgoglio di essere l'Italia
di Alessandro Angeloni
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Giovedì 9 Luglio 2020, 20:52
Quattordici anni fa eravamo più giovani. Scontato. Non era scontato per niente, invece, alzare quella coppa a Berlino, quel 9 luglio del 2006. Perché quell’Italia era una squadra partita con il piede sbagliato, era andata in Germania tra la diffidenza generale e forse la parola diffidenza non descrive bene quella sensazione della vigilia. Si era nel pieno di Calciopoli, tanti tifosi detestavano il blocco juventino, compreso il ct Lippi, che quella Juventus l’aveva forgiata per poi lasciarla in mano a Capello (passando per Acelotti). Ce l’avevano con Buffon, con Cannavaro, guarda caso tra i migliori di quella indimenticabile spedizione, il vice capitano e il capitano. Due leader veri. Fabio poi vinse anche il Pallone d’Oro. Ce l’avevano con tutti, perché “noi - si diceva - questa Nazionale non la tifiamo”. Ma come sempre succede, ed il calcio è bello per questo, siamo saliti tutti sul carro dei vincitori. Perché lì dentro si sta comodi, anche se intorno al carro ci sono centinaia di migliaia di persone a festeggiare, che fanno rumore, ti toccano, ti vogliono, ti cercano. L’immagine dei romanisti Perrotta, De Rossi e Totti che baciano la Coppa a Circo Massimo ce la ricordiamo tutti. Sui social viaggiano immagini di quel periodo, dalla testata di Zidane, in finale contro l’Italia, fino al “quattro” esibito dal povero Alberto D’Aguanno, giornalista fuoriclasse di Mediaset al seguito di quella Nazionale. Quattro come il numero dei campionati del mondo vinti dall’Italia, Alberto indossava la maglia di Materazzi, altro protagonista inatteso di quel mondiale tedesco. Dal Ghana alla Francia, un solo pareggio (con gli Usa) e una rete subita da Buffon (autogol di Zaccardo9 a parte il rigore in finale firmato da Zidane: vittoria con gli africani all’esordio (Pirlo, Iqquinta), poi con la Repubblica Ceca (la partita famosa perché Inzaghi non diede il pallone a Barone solo davanti alla porta, ma segnò lui, come sempre faceva, mentre il vantaggio fu di Materazzi), poi l’Australia (col gol di Totti su rigore allo scadere del match), poi l’Ucraina (Zambrotta e doppietta di Toni), e ancora la Germania in semifinale (Grosso e Del Piero). La Francia in finale significa vendetta, per quel 98 strozzato da un palo di Baggio e l’eliminazione cocente negli ottavi, poi la finale persa all’Europeo del 2000 con Pires e il golden gol di Trezeguet, che hanno spento i sogni di gloria di una Nazione e di Delvecchio che aveva tenuto in vantaggio l’Italia fino alla fine. L’espulsione di Zidane a Berlino, grazie a una var ante litteram, ha fatto il resto. Quattordici anni dopo è ancora storia, è ancora gioia. La storia e l’orgoglio di una Nazionale entrata nel mito. Oggi solo Buffon è in campo di quella rosa. Molti altri fanno gli allenatori, da Gattuso a Inzaghi fino a Nesta e Gilardino. Tra poco toccherà a De Rossi e a Pirlo. Tutti figli di Lippi, il ct che non voleva nessuno ma che anche lui oggi  è nel mito. Calciopoli o non Calciopoli. 
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