Cabrini: «Il calcio al femminile deve andare a scuola»

Cabrini: «Il calcio al femminile deve andare a scuola»
di Alessandra Camilletti
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Lunedì 23 Gennaio 2017, 10:44 - Ultimo aggiornamento: 17:01
 «Il primo girone ci ha riservato avversarie veramente pesanti, ma mi aspetto il massimo. Dobbiamo giocarcela» sottolinea Antonio Cabrini, commissario tecnico della Nazionale italiana femminile di calcio, proiettata al campionato Europeo che si disputerà in estate nel quadro di un movimento sportivo in continua crescita.
Chi deve temere di più l'Italia?
«Incontreremo le due squadre della finale olimpica a Rio (Germania e Svezia, la quarta del girone è la Russia, ndr), dovremo fare il massimo e mettere in difficoltà le avversarie, anche se l'impresa è ardua. Non andremo certo da perdenti».
Quanto è cresciuto il movimento del calcio femminile in Italia?
«Sta crescendo piano piano. Ci vuole un coinvolgimento complessivo, dai media ai club maschili alla federazione, che sta facendo tantissimo. È una catena e se c'è un anello rotto non va. Alla base serve un'educazione scolastica calcistica verso le ragazze, mentre il settore scolastico inizia a muoversi ora. Per arrivare a certi livelli non puoi partire da ragazzine di 14 anni».
La Figc ha previsto l'obbligo per ogni società di serie A e B di avere un settore giovanile femminile under 12. È servito?
«Qualcuno si è impegnato, altri meno. La Fiorentina ha inserito una squadra femminile in serie A. Anche il Sassuolo si sta accorgendo di un mondo da valorizzare».
In un contesto di calcio quasi totalmente maschile, quanto c'è bisogno anche di calcio femminile?
«Basta guardarsi attorno. In Svizzera, in Spagna, in Inghilterra, in Svezia e nel nord Europa, dove il movimento è cresciuto in maniera evidente, ci sono investimenti importanti. La governance sportiva ci ha creduto».
Cosa può portare?
«Sarebbe un errore pensare ad un calcio maschile rivolto alle donne. È un altro sport. La pallavolo femminile pian piano ha superato quella maschile. Nel calcio non succederà mai, ma ci sono già risultati. In America è lo sport più seguito. Cina, Giappone e nel complesso Oriente e Medio Oriente stanno crescendo. Possono esserci interessi consistenti».
Di cosa ci sarebbe bisogno?
«Ci vuole attenzione, che poi porta denaro. Le aziende sponsorizzano il calcio maschile, perché non anche quello femminile, con il giusto equilibrio tra azienda e società?».
Qual è la differenza tra il calcio femminile negli altri Paesi e quello in Italia?
«Intanto la mentalità: a otto-nove anni le ragazzine crescono con una mentalità atletica, fisicamente dotate e portate. Poi sicuramente i numeri, che fanno la differenza: noi siamo cappuccetto nero. A malapena si arriva a ventimila tesserate in Italia contro seicentomila in Germania, 250 mila in Francia, 150 mila in Spagna. Ci supera anche l'Islanda».
Passando al calcio maschile: si ritrova nella Juve di oggi, pensando alla sua?
«Il paragone è impossibile, tra maschi e femmine e tra il calcio di trent'anni fa e quello di oggi. È diverso per come si gioca e per i singoli».
Lei tifa?
«Dopo tanti anni memorizzi, guardi, vedi e dentro di te giudichi, ma non esiste tifo».
Da campione a Spagna 82: le piace il campionato del mondo a 48 squadre?
«Una prospettiva interessante. Indubbiamente, trasmette il livello di importanza del calcio: un allargamento ha un ritorno economico rilevante. È un passo importante nel cambiamento del calcio».
L'aspetto che l'ha colpita nel calcio femminile?
«È molto più facile gestire i maschi: dici una cosa e la fanno subito. Le donne sono più mentali: ti fanno riflettere e pensare, devi avere un approccio diverso».
Se dovesse incitare le ragazze a fare calcio, quale spot metterebbe in campo?
«La difficoltà non è portare le ragazze, ma portare le mamme sul ragionamento che le ragazze possano fare calcio. Le mamme preferiscono danza, ginnastica, pallavolo. Invece ci sono tante bambine che si stanno avvicinando a questo sport, per cui fino a dodici anni maschi e femmine giocano insieme».