Dzeko: «Resto a Roma finché non vinco». L'attaccante giallorosso si racconta al Messaggero

Dzeko: «Resto a Roma finché non vinco». L'attaccante giallorosso si racconta al Messaggero
di Alessandro Angeloni, Stefano Carina, Massimo Caputi e Ugo Trani
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Venerdì 27 Gennaio 2017, 08:19 - Ultimo aggiornamento: 29 Gennaio, 11:04

di Alessandro Angeloni, Stefano Carina, Massimo Caputi e Ugo Trani

ROMA Ce lo hanno descritto come un ragazzo di un'altra categoria e di un livello culturale superiore alla media. Dopo averci trascorso un'oretta a Trigoria, possiamo confermare: Edin Dzeko è di un'altra categoria, di un livello culturale superiore alla media. Un uomo di spessore. Non si atteggia a santone. Né fa il filosofo. È essenziale, sincero, sereno. Solare. Tant'è vero che sorride anche se gli ricordiamo i suoi errori e quel molle che spesso gli rintrona nelle orecchie. Un pizzico di paura/sorpresa, quando si ritrova davanti una telecamera, una macchina fotografica e quattro taccuini aperti. «Ma quanti siete?», esclama, quasi a interrogarsi sul perché di tutte queste attenzioni nei suoi confronti. «Non è un'intervista, è un forum», scherza Edin. Diventa, invece, subito un colloquio, molto semplice, che Dzeko utilizza per raccontare la sua favola. «Se ha problemi, usi pure l'inglese», il nostro suggerimento. No, macché: l'italiano sempre e comunque, anche quando si incontra qualche inevitabile buca linguistica. Edin si ferma, pensa, trova la parola giusta (e se non la trova la inventa, ma fa lo stesso) e riparte, così come avviene dopo un errore davanti alla porta. Gaffe, buche, qui a Roma siamo abituati a tutto. «Roma è una città meravigliosa, specie per chi ha vissuto non in posti eccezionali come Manchester o Wolfsburg. Certo, muoversi in macchina diventa un problema: le strade sembrano quelle di Sarajevo dopo i bombardamenti. Si vede che è una città in difficoltà, in crisi. Bisogna investire sulle strade, non si possono abbandonare così».
 

 


Riesce a girare un po' per Roma?
«Non è facile. Mi è capitato di andare in centro, ben coperto per non farmi riconoscere. Con il cappello e gli occhiali. Ricordo quando sono venuto a Roma ai tempi in cui giocavo nel Manchester: non mi ha filato nessuno, giravo tranquillamente. Oggi non è più così, sono riuscito a fare due passi in via Condotti con la mia compagna solo il lunedì dopo il gol alla Juventus. Ma ero appena arrivato, era la prima partita. Certo, Roma è comunque Roma. Quando ero a Manchester pioveva spesso e se fossimo stati ancora lì con la bambina sarebbe stato difficile anche uscire. Qui, invece, possiamo andare tutti i giorni fuori, è una vita migliore per crescere. Come dice Spalletti: A Roma si vive bene' Questo è verissimo».

Quanto è complicato, però, l'ambiente?
«In generale più di altri».
Troppe critiche?
«In Inghilterra c'era meno pressione, se non giochi bene è normale che ti critichino. Ma le critiche fanno parte del gioco, le accetto. Roma è simile alla Bosnia: non ti criticano, ti insultano. Quindi sono abituato. Se lo fanno a casa mia... Fai bene tre volte, ma se alla quarta sbagli, ecco che ricominciano con gli insulti. E' come se si aspettasse l'occasione giusta per colpirti».

Crede che, insomma, qui abbiano esagerato con la cattiveria?
«Io posso solo ricordare quello che ho vissuto e allora mi viene spesso in mente che, se faccio bene tutta la partita e poi sbaglio un'occasione, tutti parlano solo del gol sbagliato. Solo quello. L'anno scorso hanno finito per influenzare anche Spalletti che dopo non mi ha fatto giocare».

C'è un gol sbagliato a cui ancora pensa?
«Evito di soffermarmi sugli errori sotto porta. Ma quello contro il Palermo non si può spiegare».

Perché?
«Era la foto della scorsa stagione: di come stavo io, di come stava il mio piede. Davanti a quella palla gol non ero io, non era il mio piede. Davvero, non si può spiegare, non mi era mai successa una cosa simile. E di gol ne ho sbagliati, ma così mai. Poi quella sera ne ho fatti due più due assist, ma nessuno ha parlato di questo. Rimane sempre impresso l'errore».

Il gol a cui è più affezionato, invece?
«Quello alla Juventus, il primo. È sempre importante lasciare subito il segno quando si viene in una nuova squadra. Io vivo per il gol. I gol sono la mia vita, spero di farne ancora tanti e di aumentare il livello delle mie performance».
E' vero che Silvano Martina, procuratore di Buffon e grande amico di suo papà, le ha proposto di andare alla Juve?
«Silvano è una persona importante per me, mi confronto con lui su tante situazioni. E' vero, c'è stata la possibilità di andare in bianconero. Ma alla fine sono qui e sono felice di questa scelta».

Tornando al dopo gol alla Juve: perché la stagione poi è andata male?
«L'anno scorso non ho fatto preparazione con la mia squadra perché c'era sempre la voglia di andare via dal City ed anche lì non ho giocato le amichevoli e dopo due-tre mesi a Roma anche la forma è andata giù. Non sono stato preparato bene come mi sento adesso».

Ha pensato anche di andare via?
«Sì, succede quando non giochi. Poi ho deciso di restare e ne ero sempre più convinto, anche nell'ultima in casa contro il Chievo. Non ho giocato quel giorno, ma mi sono detto: da qui non mi muovo. Scelta mia, non mi ha chiesto nessuno di rimanere. Era una sfida da vincere. Sono anadato in vacanza, ho staccato la spina e sono ripartito».

Il primo anno non bene, poi grandi prestazioni nelle seconde stagioni. Per lei è una costante?
«E' vero, ignoro il motivo, ma è sempre andata così».

Da Garcia a Spalletti: è davvero cambiato tutto per lei?
«Sono diversi. Prima di venire qui tanti giocatori mi dicevano che in Italia si ci allenava tanto. Avevo scherzato con Mancini che mi aveva avvertito di prepararmi a correre. E la stessa cosa mi ha confermato Jovetic. Poi sono arrivato a Roma e con Garcia non era proprio come mi avevano preannunciato. Era anche colpa nostra, molti di noi erano stanchi, avevano problemi e anche Rudi non voleva fare molto in allenamento. A quel punto diventava difficile giocare bene per novanta minuti. Dopo settanta eravamo tutti stanchi. Lui doveva essere un po' più duro, proprio come Spalletti. Bisognava evitare che qualcuno si rilassasse troppo. Questa è una grande squadra che deve vincere sempre e se non sei preparato bene non ottieni nulla. Per questo mi piace Spalletti: lui è tosto e vuol sempre che, sia in partita che in allenamento, si dia il massimo».

Le piace anche quando le dice di essere molle?
«Sì, questo è normale. Vuole sempre di più da me e da tutta la squadra. Noi siamo giocatori e ragazzi, viviamo di emozioni. Quindi mi piacerebbe sentire ogni tanto da lui anche qualche complimento. Di aver fatto bene. Ma io non ho nulla contro Spalletti. Voglio fare sempre di più. Quello che mi dice è uno stimolo».

Difetti e qualità di Spalletti?
«Ha personalità, un allenatore deve far sapere ai giocatori chi è il capo. Lui ha queste caratteristiche, come era Magath ai tempi del Wolfsburg. Spalletti è uno che vuol sempre vincere e anche questo è positivo per la Roma. A Roma non è facile: se vinci tre partite hai vinto lo scudetto se ne perdi una va tutto male. Così non è possibile. Spalletti è uno che cura i dettagli: vuole che tutto sia perfetto anche in allenamento. E' un aspetto su cui spinge molto: ci dice sempre che se vogliamo vincere dobbiamo lavorare bene».

Quindi non ha difetti?
«Non parliamo dei difetti (ride, ndr). Non li so».

Che campionato è la serie A rispetto a quelli in cui ha giocato?
«La Premier è la numero uno. In Italia ho imparato tanto in un anno mezzo, forse di più degli otto anni in cui ho giocato in Germania o in Inghilterra. In Italia è diverso, più impegnativo. Magari avessi giocato prima qui e dopo in Inghilterra. Avrei avuto solo vantaggi».

Un campionato che la fa crescere?
«Si, anche grazie agli allenatori perché Spalletti è forse uno dei migliori che ho avuto. Quando non ho giocato lo pensavo ugualmente. Per questo dico che se avessi avuto lui e l'Italia prima dell'Inghilterra forse avrei fatto di più anche nella stessa Premier».

Si cura più tattica e tecnica?
«La tattica è al primo posto e la sfrutta anche un centravanti che impara a muoversi».

A proposito: conferma di non sentirsi una prima punta?
«E' vero. Non sono un attaccante che resta in area di rigore ad aspettare. Mi piace partire da dietro, giocare con e per la squadra. Fare gli assist. Quando ero piccolo facevo l'ala destra, il mio idolo era Shevchenko. Sono impazzito per lui quando segnò la tripletta contro il Barça al Camp Nou».

Non van Basten, come dicono in Bosnia?
«Qualcuno mi ha accostato a lui, ma per me, all'inizio, esisteva solo Sheva».

E' stato chiamato dalla Cina: perché ha detto no?
«Penso che nella vita c'è solo una carriera. Io non mi sento ancora vecchio, voglio giocare tanto e ad alti livelli. Per me questo è più importante del resto. Anche dei soldi. Io ho guadagnato bene e sono felice così. Ho scelto di rimanere qui per vincere pure con la Roma. Il futuro post calcio? Non ci ho pensato, perché mi vedo calciatore ancora per tanto tempo».

Da musulmano, invece, come vive questo periodo in cui il terrorismo islamico terrorizza il mondo e non solo la nostra città?
«Non siamo tutti uguali. Questo è proprio il caso in cui non si può generalizzare».

Sarebbe contento se dovesse arrivare a Roma un altro attaccante. Si è sempre parlato della necessità di un vice Dzeko?
«Io dico solo una cosa: a me piace giocare. Poi, ogni tanto, mi fa bene anche riposare».