Pelé, simbolo e ostaggio del suo Brasile

È stato il primo a mostrare che si poteva uscire dalla miseria con sacrificio e talento, nominato ministro dalla politica che gli aveva impedito di arricchirsi

Pelé, simbolo e ostaggio del suo Brasile
di Alfredo Spalla
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Venerdì 30 Dicembre 2022, 11:19

Il contributo di Pelé alla storia del Brasile va ben oltre le tre delle cinque stelle cucite sulla maglia della Seleção. È stato un simbolo sportivo, sì, ma anche sociale e politico. La sua vita privata è sempre stata al centro dell'attenzione di pubblico e media. Non hanno fatto eccezione le ultime ore con i brasiliani ansiosi di avere aggiornamenti sulla sua salute. Se sui campi è stato O Rei, un Re incontrastato, nella società è stato il vero presidente del Brasile, o quantomeno l'ambasciatore più famoso al Mondo.

AMATO E DISCUSSO
Amato, talvolta discusso, tirato per la giacca da più parti, ha dato gioia e prestigio al Paese. Ha creato una rivalità, tutta calcistica e nemmeno troppo fondata, con i cugini argentini. Da una parte Pelé, dall'altra Maradona. Tolti loro due Brasile e Argentina quasi non saprebbero su cosa beccarsi. Ma la grandezza del Pelé uomo sta soprattutto nella sua storia di vita. È stato uno dei primi brasiliani a mostrare che con talento e sacrificio era possibile lasciarsi alle spalle le umili origini. Oggi è lungo l'elenco di calciatori verde-oro che hanno abbandonato la miseria ottenendo un riscatto sociale, ma per molti il riferimento è stato Pelé.

E anche per questo i brasiliani hanno continuato ad amarlo nei decenni, pur non avendolo visto giocare dal vivo, in televisione o senza neppure aver letto le cronache sportive dell'epoca.

La popolarità acquisita l'ha gestita in maniera altalenante. A volte è riuscito a canalizzarla correttamente, altre l'ha messa a servizio - forse per ingenuità - di scopi e persone meno nobili. «Non è mai stato un imprenditore. Era ed è un ragazzo-copertina. Oltre a pubblicizzare prodotti, Pelé ha venduto il suo nome a diverse imprese con vari soci, non sempre onesti. L'ha fatto con un mix di inconsapevolezza, ingenuità, ma anche ambizione con una punta di vanità. Sono caratteristiche dell'essere umano, ma ciò non elimina le sue responsabilità», scrisse anni fa il compagno intellettuale Tostão, che nel 1970 vinse il Mondiale insieme al Rei. È stato usato, suo malgrado, dalla dittatura brasiliana, che grazie alle vittorie della nazionale riusciva a vendere un'immagine del Paese migliore di quella reale. «In quel momento non volevo essere Pelé», ricorderà anni dopo nel documentario Netflix sulla finale di Messico 1970 vinta contro l'Italia. A pesargli non era certo la pressione sportiva. Eppure la stessa politica, che gli ha impedito di migrare all'estero per avere fortuna (e soldi) in altri campionati, anni dopo gli ha aperto le porte. È accaduto alla fine degli anni Novanta.

ERA COME UN PRESIDENTE
Non è stato presidente - anche se per la sua popolarità avrebbe potuto provarci - ma è stato ministro dello Sport nel Governo socialdemocratico di Fernando Henrique Cardoso. Ha firmato e promosso la Legge Pelé che ha fatto fare un balzo in avanti a tutto il movimento sportivo brasiliano. Un provvedimento che ha consentito a tante realtà di divenire professionistiche, che ha creato fondi ad hoc per gli sport olimpici e paralimpici e ha sancito l'indipendenza dei tribunali di giustizia sportiva. Pelé ha sempre cercato di avere buone relazioni con tutti, ma inevitabilmente, alla fine, ha scontentato qualcuno. «Quando sta zitto è un poeta», gli rispose Romario tanti anni fa creando un tormentone in voga tra i suoi detrattori. E poi c'è stato il gossip. Al carnet del campione non è mancato quasi nulla: tre matrimoni, la drammatica vicenda processuale di una figlia non riconosciuta e poi deceduta a causa di un cancro, la relazione da sogno con la conduttrice televisiva Xuxa Meneghel. È stato popolare e amato anche per questo, anche quando era al centro della scena senza volerlo.

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