Chinaglia, 10 anni fa la morte. Luigi Martini: «Giorgio nemico mio amatissimo mi manchi»

Il ricordo del rivale nella Lazio del ‘74: «Non ci piacevamo, ma in campo guai a chi lo toccava. La pace? Solo da ex calciatori...»

Chinaglia, 10 anni fa la morte. Luigi Martini: «Giorgio nemico mio amatissimo mi manchi»
di Andrea Sorrentino
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Venerdì 1 Aprile 2022, 09:29 - Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 17:05

Così lontani, eppure così vicini, senza saperlo. O per non volerlo ammettere. Ci vollero anni, per farlo: galeotta fu un'edicola di giornali, al Fleming. Così è stato per un gioco del destino, esattamente dieci anni fa oggi, che quando Giorgio Chinaglia muore in Florida, il compagno più vicino a lui, almeno fisicamente, anche lì all'insaputa di entrambi, è Gigi Martini. Il suo nemico amatissimo: «Mi trovo a Miami, mi chiama un amico: Ma hai saputo che Giorgio è morto?. Io raggelato. Aveva avuto un infarto a Naples, a due ore di auto da dove ero io».
Lei, terzino sinistro dello scudetto del 74, poi ha vissuto molte vite: pilota Alitalia, parlamentare di An, navigatore intorno al mondo. Ma fu anche il grande antagonista di Chinaglia nello spogliatoio: chi era Giorgio?
«Un trascinatore. Il simbolo, l'anima, lo spirito guida dello scudetto. Un guascone. A volte arrogante, prepotente. Un cuore grande così. E pure un uomo fragile. In campo, reagiva alla fragilità caricandosi. Ma quando sei solo, e non hai 70mila persone intorno, puoi essere sopraffatto. In quei casi, Maestrelli se lo portava a casa, lo coccolava, Giorgio rimaneva da lui anche due giorni senza uscire. Aveva un vissuto pesante, l'infanzia in Galles col padre minatore, gli dicevano italiani mafia e spaghetti. Aveva una grande rabbia dentro, era la sua forza. L'immagine del dito puntato, contro i romanisti dopo un gol, in realtà è simbolica di chi fosse Giorgio: uno che sfidava tutti, anche il potere, anche la morte. Fino all'ultimo: si sentì male, in ospedale i medici gli dissero che dovevano trattenerlo: Attaccatevi al c, io firmo ed esco. Morì poco dopo. Carissimo Giorgio. Lo ammettemmo anni dopo, che ci volevamo un sacco bene».

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Eravate compagni e nemici.
«Antagonisti, ma per affinità caratteriale. Lui voleva sempre vincere, io non volevo mai perdere, quindi nelle partitelle era nata una rivalità che sfociava in scontri fisici pesanti. In quel contesto e per il lavoro che facevamo, aveva un senso. Poi Maestrelli faceva sì che gli scontri rimanessero nell'ambito dell'agonismo. Nemmeno a Re Cecconi piacevano gli atteggiamenti di Giorgio e di Wilson, che era il suo alter ego, così ci trovammo, e nacquero i due clan. Ho cominciato ad apprezzare Giorgio quando non giocavamo più, ci pensavo spesso. Poi un giorno, per caso, ci ritrovammo».
Quando e dove?
«Lui era da poco presidente della Lazio. Lo incontrai davanti a un'edicola, al Fleming. Parlammo per un quarto d'ora, e quando ci lasciammo eravamo due uomini diversi. Fu molto emozionante. Affettuosi l'uno con l'altro, e giù coi vecchi tempi: Quanto mi rompevi le palle, andavi su e giù per la fascia e non me la passavi mai.... E poi, in pieno stile Giorgio, disse: Adesso ho preso la Lazio perché mi voglio bere Agnelli, capisci?. Lui era così. Lo salutai, risalii in macchina e mi sentii pieno di qualcosa, pensai per ore a quella chiacchierata. Anche con Wilson diventammo amici, tanto amici, ed è stato così fino alla fine».
Ma poi i due clan contrapposti come facevano la domenica a diventare uno per tutti e tutti per uno?
«Perché alla base c'era una cosa molto profonda, difficile da spiegare, ma la provavamo tutti: c'era un'enorme stima tra noi.

Io non potevo non apprezzare il Chinaglia calciatore, era formidabile, anche se nella mia immaturità mi stava sulle scatole che facesse il prepotente, non gliela volevo dare vinta e facevo il prepotente pure io. Ma la domenica era il mio compagno e scattava qualcosa, guai a chi me lo toccava. Poi capivamo che stavamo per combinare uno scherzo incredibile a tutta Italia: noi, la piccola Lazio, che batteva il potere, quello vero, la Juve, gli arbitri. Fu troppo bello. Perché noi eravamo ribelli, anarchici veri».

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Tipo?
«Giravamo in jeans, scarpette e maglietta: quelli di Juve, Milan e Inter, tutti precisi, in divisa. Un giorno il presidente Lenzini si incavolò, ci teneva al decoro, e impose la divisa sociale. La mettemmo una volta, durò due giorni. Giorgio sbottò: Mi fa schifo questa divisa, adesso la regalo ai tifosi. Io per non essere da meno feci lo stesso. Lui se la prese: mi vuoi sempre copiare. Nel giro di poche ore, tutti i giocatori avevano regalato i completi ai tifosi».
Eravate molto naif pure sulla questione delle armi, di cui abusavate.
«Partì tutto da me. Andavo a sparare al poligono di tiro, in modo professionale. Una volta commisi l'errore di portare l'arma in ritiro e scoppiò l'inferno: tutti ne volevano una, in poco spuntarono pistole e fucili ad alta precisione. Maestrelli mi disse: Gigi, hai fatto sto casino e adesso rimedi: controlla almeno che nessuno si faccia male. Così mi misi a insegnare a Giorgio e agli altri come usare la pistola, per evitare guai. Ma non erano bravi allievi. All'Hotel Americana, in ritiro, avevamo messo su un vero poligono di tiro, ma partì un colpo che raggiunse una finestra poco distante. Vedemmo arrivare Maestrelli su una gazzella dei carabinieri, solo che gli stessi carabinieri, lì per lì, ci dissero: Fate provare anche noi, che non spariamo mai.... Spararono, poi ci fecero smantellare tutto. Lei pensi se alla Juve di Agnelli e Boniperti sarebbe mai potuta accadere una cosa simile».
Già, Maestrelli.
«Ti leggeva dentro e assorbiva i tuoi problemi. Se ne avevi uno, lui ti veniva incontro perché aveva già capito, e bastava parlargli per sentirsi liberati. Pensavi che con lui vicino non ti potesse accadere nulla. Lo so, sembra di parlare di un santo, ma a tutti faceva questo effetto. Morto lui, finì quella Lazio. Giorgio se ne andò e io stesso, dopo la morte di Re Cecconi, che era come un fratello, avrei potuto smettere il giorno dopo, ho solo aspettato che mi assumessero in Alitalia e ho chiuso col calcio a 29 anni. Poi inutile parlare della catena di lutti che ha colpito quella squadra. La Lazio, la sua epopea, sono una cosa unica. Mi dica lei dove è accaduta nel mondo una storia come quella della cripta dei Maestrelli che, per volere dell'ultimo sopravvissuto, ospita Chinaglia e Wilson. Una storia incredibile, unica. La nostra».

 

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