Sette anni e zero titoli: Pallotta senza “core de Roma”

James Pallotta
di Piero Mei
4 Minuti di Lettura
Lunedì 30 Dicembre 2019, 00:58 - Ultimo aggiornamento: 10:00

La Roma che il signor James Pallotta, bostoniano, lascia dopo sette anni di presidenza, lunghi quanto due mandati alla Casa Bianca dove “tertium non datur” e neanche a Trigoria (per fortuna, si direbbe), è tutta un’altra Roma rispetto a quella che lo stesso Pallotta si trovò fra le mani e nel portafoglio, ma forse mai nel cuore. E’ rimasta la stessa soltanto nella stanza dei trofei; o, verrebbe da suggerire con amarezza, nello scaffale, giacché pochi ce ne sono, pure se il tifo è uno dei più belli e caldi del mondo, e non solo per i “ragazzi della Sud”. Questa Roma americana ha vinto “zero tituli”, per dirla con Mourinho. Ma neppure questo sarebbe l’aspetto più mortificante di questa intera vicenda pluriennale che pure aveva proclamato dall’inizio un “cambiamento” epocale. Prima lo scudetto, poi la Champions; la Roma fra i più grandi club del mondo, veniva proclamato, e il popolo giallorosso, per quanto disincantato come un popolo che ha visto e vissuto i barbari e i Barberini, ma il Colosseo è sempre lì, aveva aperto il suo credito. «So quanto siano pazzi i tifosi della Roma, ma voi non sapete quanto sono pazzo io» disse il neopresidente. Il popolo giallorosso non sapeva ancora che presto sarebbe stato considerato un considerevole gruppo di clienti.

ROMANISTA DIVERSO
Il tifoso è un cliente indotto, ma in realtà è un’altra cosa. Quello romanista particolarmente. E così si assisteva a un turbinio di stelle filanti, in campo e fuori, stelle che non per colpa loro filavano presto via. E stata l’era della modernizzazione societaria, questo sì; del nuovo stadio che restava sullo sfondo come un miraggio; l’era delle plusvalenze più che quella dei risultati. Okay, per americaneggiare, quella sera contro il Barcellona…. Ma poi? Il trito ritornello: la Juve ha lo stadio! Bastasse uno stadio per vincere un campionato… Non sarebbe servito di più occuparsi un po’ meno di “earn out”, “cash flow”, “due diligence” e altre doverose e dolorose incombenze finanziare con termini piuttosto estranei? E magari non avviarsi su quella strada che ha portato la Roma dov’è oggi, la strada “der còre”? La Roma aveva un’anima che non ha quasi più: aveva la “romanità”; Intorno a questa che stata sempre il topic trend della Roma potevano crescere ragazzi ben individuati, come Marquinhos, o Salah, o Alisson, per non ricordarne che tre, e gli ultimi due sono proprio quelli che la Champions l’hanno vinta ma altrove, e che stanno per riportare lo scudetto inglese in quel di Liverpool, dove si è invecchiati nell’attesa, l’ultimo trent’anni fa quando il campionato d’Inghilterra non era ancora Premier League. Forse hanno ripianato qualche buffo di troppo, ma hanno spianato, per non dire asfaltato, come è moderno dire, troppi sogni. Ecco perché è un’altra Roma. Sportivamente.

E’ una Roma sparita, tipo quella delle stampe di Pinelli (che immortalò i tempi belli, si cantava) e delle cartoline dal tabaccaio. Anche qui s’è trattato di venditori di fumo? Si è sentita come un’aria di epurazione: toglietevi la maglia numero 10, quella del ragazzo di Porta Metronia, Totti; e poi toglietevi la maglia numero 16 del ragazzo di Ostia, De Rossi; toglietevi perfino il lupetto: ce n’è di nuovo design. E poi toglietevi direttamente Totti e De Rossi. Come soffiare contro il ponentino, cui ha rubato l’aria una giannetta che sapeva di freddo. E il freddo non è cosa da Roma. Specie se alla fine di sette anni non c’è una vittoria che ti scaldi gli occhi: il secondo, nello sport, è il primo degli sconfitti. Sempre. Il bilancio propriamente detto sarà pure in ordine: quello sportivo è in rosso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA