Roma, con Friedkin scoperta un'altra America

Dan e Ryan Friedkin
di Stefano Carina
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Martedì 13 Ottobre 2020, 07:30 - Ultimo aggiornamento: 11:23

Gemelli diversi. Entrambi statunitensi, uomini d’affari e appassionati di basket. Ma le affinità tra James Pallotta e Dan Friedkin probabilmente finiscono qui. Venerdì saranno trascorsi due mesi dal closing che ha segnato il passaggio di proprietà e l’inizio di una nuova era per la Roma. E tanto è bastato per una sorta di rivoluzione copernicana. Dalla comunicazione alla presenza in loco, dalle gags ai silenzi, dal look sportivo a quello impeccabile giacca e cravatta, dal codazzo di reporter al seguito all’anonimato più assoluto, dall’affidarsi immediatamente ad un referente tecnico alla volontà invece di verificare e scegliere in prima persona il dirigente di turno. Senza fretta. Jim e Dan sono come lo Yin e lo Yang, il bianco e il nero, il giorno e la notte. Il bostoniano si presentò a Trigoria con un tuffo vestito nella piscina scoperta con una temperatura di poco sopra allo zero. Un gesto che doveva servire per far capire alla squadra che «non bisogna farsi intimorire da niente e da nessuno». Il magnate texano, nel suo primo giorno al Fulvio Bernardini, è passato invece quasi inosservato. La maggior parte degli impiegati si sono accorti dell’arrivo, soltanto quando era pronto per risalire in automobile e raggiungere la location di lusso scelta per i suoi primi giorni “capitolini”: La Posta Vecchia a Ladispoli, lontana dal centro della città. Che invece era la meta preferita da Pallotta, frequentatore dell’Hotel De Russie in via del Babuino.
ESSERCI SEMPRE
Quello che salta agli occhi è la presenza costante dei Friedkin. Silente ma assidua. Padre e figlio, una volta sbarcati in città, ogni giorno si sono recati a Trigoria. Sempre in coppia, girando per il centro sportivo e parlando con pochissime persone. A volte bastano gli occhi per vedere, senza doversi far raccontare le cose. Come accadeva invece con Pallotta e che alla lunga s’è trasformato nel suo tallone d’Achille. Jim, infatti, ha sempre delegato. Una volta a Baldini, un’altra a Sabatini, un’altra ancora a Baldissoni, prima di ripiegare su Fienga ma tenendo indissolubili i rapporti con i fidati Gombar e Lippie. Ed essendo uomo dagli innamoramenti facili, una volta prediligeva una versione e un interlocutore rispetto ad un altro. Con i Friedkin, almeno per adesso, sembra tutto l’opposto. Loro osservano, scrutano, s’informano direttamente. Come accaduto ad esempio su Borja Mayoral. Non sapevano chi fosse: un giorno hanno chiamato lo scout Cavallo e gli hanno chiesto una relazione. O nei colloqui portati avanti per individuare il futuro ds: Williamson va in avan scoperta, sonda il terreno ma poi sono loro a parlare con Rangnick, Campos e Emenalo, senza dimenticare l’incrocio all’Olimpico con Paratici. Probabilmente in futuro demanderanno anche loro, come già successo ad esempio con Watts, il referente finanziario al quale Fienga ha chiesto nell’ultima sessione di mercato l’ok per completare le operazioni di Kumbulla, Mayoral e Smalling. Ma l’impressione è che tutto passerà per la loro supervisione, visto che il figlio Ryan si fermerà in città. La volontà di esserci, di presenziare alle prime 3 gare di campionato (due in trasferta), sono particolari che per ora hanno fatto la differenza agli occhi di una tifoseria abituata all’assenza di Pallotta, rotta soltanto dalle esternazioni pittoresche via sms quando le cose precipitavano.

Ai Friedkin servirà prima o poi farsi conoscere. Questa è una città che ha bisogno del contatto, di sentirsi unita - parafrasando Venditti - anche se a volte si è lontani. E uno scarno comunicato stampa o un’intervista senza audio pubblicata sul sito, non bastano. Il resto lo faranno i risultati. Come accaduto con Pallotta, Sensi, Viola, Anzalone e chi li ha preceduti.

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