Roma, adesso tocca a Mourinho andare oltre i limiti

José Mourinho
di Andrea Sorrentino
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Giovedì 2 Settembre 2021, 07:30

E adesso, che ci pensi José. Suo è il regno, sua la potenza. Ormai ha anche assunto questa postura ieratica, vagamente papale e benedicente, e l’ispirazione gli arriva fin troppo naturale nella città del Vaticano. Non a caso si è già premurato di compiere la visita di prammatica in piazza San Pietro. Ma non vuole essere un antipapa, perché l’uomo è cattolicissimo. Lo diverte di più l’idea di un papa profano, un Conducator, una guida spirituale e un trascinatore di una tifoseria che aveva un bisogno vitale di una figura simile, lui lo sa benissimo. Così in due mesi Mourinho ha ipnotizzato Roma e la Roma, l’ambiente, i dirigenti, chi gli sta intorno. Ha fatto l’allenatore e il manager, l’organizzatore del lavoro suo e degli altri, si è costruito uno staff tutto nuovo. E quanto gli piace, far crescere la piantina con le sue mani. È la cosa che preferisce. Ha chiesto fiducia e l’ha ottenuta, con gli allenamenti, con i risultati che si vedono, con quattro o cinque tra interviste e conferenze stampa che lo hanno circondato di ammirazione, di rispetto. Insomma ha preparato il terreno. Per cosa? Risposta facile, ma la lasciamo a Massimo Moratti, il suo presidente all’Inter, che dice a Radio Kiss Kiss: «C’è anche la Roma per lo scudetto, anche se José non lo dirà mai. Lui non è uno che punta al terzo posto...». Solo che ora tocca a José, far crescere ancora la squadra, affinché anche certi sogni assumano una fisionomia reale, o realistica. Non è arrivato il centrocampista? Vuol dire che Diawara, Villar e Darboe dovranno moltiplicare gli sforzi per rendersi utili e necessari, da loro Mourinho (che però dubita) si aspetta un cambio di passo sul piano del temperamento, dell’intensità, della fede: solo così potranno tornare buoni per la causa. E gli altri, ora che la Roma sta uscendo allo scoperto, che non mollino un millimetro e proseguano il cammino, che diano molto di più, perché la battaglia è iniziata sul serio. Ha bisogno di soldati, di gente che vada oltre i limiti.
O LO AMI O TE NE VAI
L’esercito perfetto di José è un manipolo di mezzi matti e felici di esserlo, disposti a tutto, perché con lui si cresce e si vince, anche tra la sorpresa degli altri, anzi meglio.

Infatti i suoi successi più cari li ha ottenuti con squadre e ambienti forgiati da lui, il Porto, il primo Chelsea, l’Inter. A Madrid faticò di più, in un club durissimo e spocchioso, forse l’unico più grande di lui, e comunque vinse una Liga da record e li riportò tre volte in semifinale di Champions dopo 7 anni. Costinha, Maniche e Deco diventarono tali grazie al Porto di José, non viceversa, e anche Lampard, Terry e Drogba al Chelsea, per non parlare degli interisti. Ma chi non lo segue, chi deflette, o chi a una sua prima occhiata non è all’altezza, è fuori. All’Inter accompagnò all’uscita gente come Adriano e Vieira, Crespo, Cruz: grazie e statemi bene. Di Balotelli capì subito che i difetti soverchiavano i pregi, il bilancio era sempre sfavorevole nonostante punizioni ed esclusioni dalla rosa, e la carriera di Mario non gli ha dato torto. Lanciò Santon a 17 anni ma si addolorò per le delusioni che gli diede subito dopo, e quello non vide più granché il campo. Al Porto escluse per un mese il portiere Vitor Baia, gloria nazionale, a Londra Joe Cole e persino il “suo” Carvalho, che disubbidiva. A Madrid intuì il declino di Casillas, pure se in Spagna era “San Iker”, gli dichiarò guerra perché quello spifferava i segreti di spogliatoio ai giornalisti e lo mandò in panchina. Si scontrò pure con Cristiano Ronaldo, già all’epoca assai pigro nell’aiuto ai compagni, e non si sono più amati da allora. Di Schweinsteiger a Manchester non volle saperne, e il tedesco finì la carriera a Chicago. Ma sa anche tornare sui suoi passi, in rari casi: è accaduto col giovane Lukaku, giubilato al Chelsea poi fatto comprare dal Manchester United cinque anni dopo. O lo ami e lo segui ciecamente, o te ne devi andare. Questa è la legge di José. Chi rimane, di solito non se ne pente.

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