Non fu una sorpresa quella vittoria: lo fu prima, essere arrivati fin lì. Perché quell’Italia di Bearzot aveva fatto di tutto, almeno all’inizio (la Nazionale è un diesel storico: parte piano e arriva forte, quando arriva…), per suscitare polemiche e alimentare dubbi. Ma fu un cammino napoleonico: quando Bonaparte fuggì dall’Elba il quotidiano parigino “Le moniteur universel” titolò “L’antropofago è fuggito dal covo”, poi, man mano che il generale s’avvicinava a Parigi, divenne “il tiranno”, “Bonaparte” e, a capitale conquistata, “L’imperatore è a Parigi”.
Con un simile crescendo (o decrescendo, punti di vista) fu accompagnato il torneo azzurro. E questo gruppo, offesissimo e non avendo social di sfogo, attuò un rigido silenzio stampa. Parlavano solo Zoff, che era il capitano quarantenne, circondato da una chiacchiera che ne voleva la vista in calo, e il vero artefice di questo trionfo, prima umano che non calcistico, Enzo Bearzot.
Il gruppo 1 della prima fase comprendeva, oltre l’Italia che aveva portato anche Paolo Rossi reduce da una squalifica scaduta di fresco, e non aveva portato Evaristo Beccalossi la cui causa fu difesa da una tifosa che rifilò alla partenza uno schiaffo a Bearzot, la Polonia, il Perù e il Camerun. L’Italia pareggiò tutte e tre le partite e quei puntarelli le consentirono di andare alla fase 2, ugualmente a gruppi. Non senza un contorno di scandali e scaldaletti, compreso quello che, secondo l’accusa mai provata, ci aveva visto protagonisti di una “amichevole sensibilizzazione” della squadra africana, perché non ci battesse e rimandasse subito a casa, che, secondo la critica in voga, era il posto giusto per i nostri “non eroi”. O almeno, “non ancora”. Pablito non segnò neppure un gol.
E adesso veniva il bello: perché nel girone della seconda fase l’Italia avrebbe avuto di fronte l’Argentina di Maradona e il Brasile di Falcao e tanti altri: mancava di portieri, perché ancora non erano i tempi d’oro dei portieri brasiliani che, ai tempi, mandavano tra i pali i più scarsi.
Si svegliò Pablito: ne segnò due all’Argentina e tre al Brasile. Gentile, detto Gheddafi per la nascita libica a Tripoli, morse le caviglie (non letteralmente: quello lasciatelo fare a Suarez e Patric) a Maradona e Zico, Bruno Conti fece una crasi dei due campioni sudamericani e lo chiamarono Marazico, Cabrini, il “bell’Antonio”, faceva impazzire avversari e donzelle.
Fu scomodato Pirro per una vittoria di battaglia ma la guerra chissà, eppure così non fu. Ci toccò la Polonia di Zibì: proménade. Mezza Roma si riversò in piazza San Pietro invitando Papa Wojtyla ad affacciarsi e prendersi lo sfottò (non lo fece), balconeggiò invece il presidente del Consiglio Spadolini, da Palazzo Chigi, anche se l’Italia non aveva sconfitto la povertà ma “solo” la Polonia.
Ora fra il titolo e gli azzurri non c’era che la Germania di Rummenigge. La Germania del 4 a 3 al Messico ’70. Cabrini sbagliò un rigore, Pablito segnò il sesto gol consecutivo, poi venne Tardelli, l’urlo che suona, il 2 a 0 che alla fine, complice goleador Altobelli, fu un 3 a 1. Sì, non li presero più: Pertini accese la pipa, il successo accese l’Italia. Bollenti spiriti furono raffreddati dal gran bagno nelle fontane d’Italia la notte tra l’11 e il 12 luglio 1982. E vissero felici e contenti, tornando a Roma con l’aereo del presidente, un mazzo di carte, una partita a scopa che vide Pertini protagonista con Bearzot, Zoff e Causio. E tutti ritrovarono la parola. Il Brasile eravamo noi.
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