Meneghin ne fa 70: «Ma non chiamatemi monumento»

Dino Meneghin
di Marino Petrelli
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Sabato 18 Gennaio 2020, 11:00
Sarà una giornata come tutte le altre, con pochi festeggiamenti e senza alcun rimpianto. In cuor suo, però, Dino Meneghin sa che quella di oggi è una data importante, i 70 anni dalla sua nascita. Celebrati in famiglia, senza il bisogno di fare bilanci. Per lui parla il campo: ha disputato 13 finali di Coppa dei Campioni, vincendone 7, a cui vanno aggiunte 2 Coppe delle Coppe, 1 Coppa Korac, 4 Coppe Intercontinentali, 12 scudetti, 6 Coppe Italia, un oro e due bronzi agli Europei con la Nazionale, un argento olimpico a Mosca 1980. Per la Nazionale ha rinunciato, due volte, alla chiamata dell’Nba: nel 1970 da parte degli Atlanta Hawks, quattro anni dopo al ricco contratto proposto dai New York Knicks. Da quelle rinunce, è nata la leggenda del basket italiano, 204 centimetri di intelligenza cestistica che lo resero uno dei pivot più forti in Europa. Ma non chiamatelo monumento perché, come lui stesso ha dichiarato, «i monumenti servono ai piccioni a fare i loro bisogni». Nel 1981, fu protagonista di un clamoroso trasferimento da Varese ai rivali dell’Olimpia Milano, con cui continuò a vincere sotto la guida di Dan Peterson, che qualche giorno fa ha compiuto a sua volta 84 anni. Gli stessi anni della squadra milanese che lo scorso novembre ha ritirato la sua maglia numero 11. Era successo soltanto per la numero 8 di Mike D’Antoni e per la 18 di Arthur Kinney. E forse non accadrà più.
BRAVO NONNO
Perché di Meneghin ce n’è uno solo. Anzi due, il figlio Andrea anch’egli giocatore di ottimi livelli e con il quale riconosce di «non avere avuto un rapporto così stretto come avrei desiderato a causa della mia lunga carriera sul campo. Da anni ci siamo ritrovati, mi considera adesso un bravo nonno». La sua carriera merita appunto una citazione. Ha smesso di giocare a 44 anni, dopo aver esordito a Varese a 16. Quando arrivò a Milano, a 31 anni, pensava di giocare al massimo un paio di campionati. Ha smesso nel 1994, tredici stagioni dopo. «Fu Dan Peterson – racconta – ad allungarmi la carriera in modo da poter partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles. Peterson non mi chiedeva di fare l’eroe e risolvere le partite da solo, ma di essere un uomo squadra». Lo è stato anche da dirigente in Nazionale e da presidente della Federbasket. Ora è tempo di godersi i suoi 70 anni. Senza candeline, ma con un grandissimo grazie da parte di tutti gli appassionati di pallacanestro.
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