COME UN FILM
La storia di Yusra è come un film, e Hollywood l’ha fatto. Nuotava da piccola a Damasco, gettata in acqua dal padre Ezzat, allenatore. Lei e sua sorella Sarah, ossessivamente. La corsia, pensava Ezzat, era una via per la libertà. Poi cominciarono a cadere bombe su Damasco, i vetri della piscina in pezzi, la vita in pericolo. Ezzat affidò le due figlie a un cugino, che le portasse in Germania. Via terra, prima, fino a Smirne, in Turchia. Con l’isola greca di Lesbo, l’Europa, di fronte. Non ci si poteva arrivare a nuoto, ma con il gommone sì. Sarah e Yusra salirono su di una imbarcazione buona per sei passeggeri, erano più di venti. Era la seconda volta che tentavano la traversata, breve e difficile: la prima erano state ricondotte indietro dalla guardia costiera turca. Ora navigavano, quando il motore andò in avaria, il barcone alla deriva. «Che vergogna io nuotatrice morire annegata!» pensava Yusra. Così, gettati a mare il superfluo e il necessario di tutti, lei, Sarah e un’amica si misero a spingere il gommone verso le luci di Lesbo. Approdarono. E poi in Grecia, in Macedonia, in Serbia, in Ungheria, le polizie di confine peggiori delle onde dell’Egeo. E poi Berlino. «C’è una piscina qui?». Ci si presentò, la presero, ricominciò a nuotare. Quando il Cio fece la squadra di rifugiati Yusra era una candidata naturale. Fece da portabandiera. Adesso i mondiali: al debutto lento vorrebbe opporre i 100 stile libero migliori, anche se ha male a una spalla.
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