SuperSic, addio al pilota più amato
Il senso di colpa di Rossi: oddio, oddio

Marco Simoncelli, aveva 24 anni
di Giorgio Belleggia
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Domenica 23 Ottobre 2011, 15:12 - Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 19:36
E adesso il posto vuoto sul volo di ritorno da Sepang rester per tanti uno spazio doloroso recintato per sempre. Marco disperso nei frammenti di un film finito male, che ognuno porter con s come potr. A casa, quando gli abbracci saranno più lunghi e diversi. O nel paddock, che senza di lui non sarà più lo stesso, perché non si riderà per un bel po' come si faceva certe volte la sera. Come si faceva con lui.



La morte di Marco Simoncelli lascia un posto vuoto tra gli affetti di tutti quelli che lo conoscevano e quindi lo capivano e lo amavano per com'era e per come voleva essere. Solare, positivo, gioioso e giocoso, sincero e diretto, convinto che la vita fosse una cosa semplice e bella proprio per questo. Come le corse, cominciate con la passione contagiosa dì papà Paolo che prese forma con le minimoto a 7 anni, fino alle maxi a 22. Una carriera lampo. La moto, Marco, la moto. La moto era tutto. Il mezzo e il fine. Prima il sogno di un ragazzino romagnolo, poi un lavoro che non è mai stato un lavoro, ma un divertimento e anche ben pagato. Marco, poi SuperSic con il titolo mondiale nella 250 nel 2008 a 21 anni. La sua inclinazione a fare le cose stupide, con il suo team degli stupidi a preparare le corse con l'autoironia degli antidivi in un approccio dall'apparenza controcorrente: la rivincita della componente umana fanaticamente basic sul mondo perfettino dell'ingegneria applicata anche ai saluti e ai sorrisi.



Marco era considerato un duro del manubrio. A Lorenzo e Pedrosa non piaceva averlo intorno, perché era tosto, coraggioso, imprevedibile, velocissimo. Con lui la stampa e i colleghi piloti erano stati molto più severi che con Valentino Rossi, che pure nel corpo a corpo non ha mai fatto sconti a nessuno.



Con la moto, non doveva finire così. Le corse sono pericolose per definizione e tanto si è fatto per aumentare la sicurezza attiva e passiva. Agostini correva con il casco con la bolla e intorno all'asfalto un campo minato di guardrail. Adesso ci sono gli spazi di fuga, le tute di pelle di canguro con l'airbag, ma la vita del pilota resta appesa a tante circostanze. Marco è il secondo pilota ucciso dall'elettronica dopo Kato a Suzuka nel 2003. La Honda stava provando il sistema ride by wire (acceleratore elettronico, un potenziometro al posto del filo del gas) e a Kato rimase il gas aperto. Semplice. Qualcosa non funzionò, Kato, o ha funzionato troppo bene nella tragedia di Supersic: la Honda ha perso aderenza nell'anteriore e Marco sarebbe dovuto scivolare fuori pista, all'esterno. Invece il traction control ha riaddrizzato la moto e l'ha tenuta in pista, facendole fare quella traiettoria innaturale e mortale, portando Simoncelli nella parte interna della piega, sotto le ruote di chi arrivava alle sue spalle. Edwards l'ha centrato alle spalle, Rossi sul casco. Valentino è tornato ai box sconvolto: oddio, oddio mio. Peggio di Gardner addosso a Uncini a Assen nel 1983. Il resto lo fanno i soccorsi, lenti in maniera inaccettabile. Finisce così la corsa di Marco Simoncelli SuperSic, senza colpe né colpevoli. Una scivolata stupida, le gomme fredde, il momento sbagliato. La moto, Marco, la moto che stavolta si guida da sola: non è lì che doveva andare. Non così.
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