Roma '60, il mondo ai piedi di Cassius Clay

Roma '60, il mondo ai piedi di Cassius Clay
di Piero Mei
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Venerdì 4 Settembre 2020, 09:15
“Il re del mondo”, come l’ha chiamato uno dei tanti libri a lui dedicati (ma lui preferiva “The Greatest”, il più grande, come intitolò la sua autobiografia e come probabilmente fu davvero) nacque la notte del 5 settembre di sessant’anni fa, a Roma, ma non in uno dei tanti palazzi nobiliari e no che nei secoli dei secoli hanno visto venire alla luce uomini e donne (e perfino cose) che hanno illuminato il mondo intero. Questo re nacque in un palazzo che nel 1960 proclamava avvenirismo e modernità, tecnologia e architettura d’arte: il Palazzo dello Sport all’Eur, una delle tante creazioni che segnarono le eterne età di Roma: l’età olimpica. Nacque su di un ring al centro di quell’arena e forse quella speciale culla l’aveva già nel destino del suo nome, che poi cambiò. Non era un bambolotto: era già un marcantonio di 18 anni che aveva alle spalle 128 incontri di pugilato da dilettante, più della metà vinti per ko. Aveva paura di volare, eppure dopo avrebbe inventato per sé il celebre claim «pungere come un’ape, volare come una farfalla»: prima di partire per l’Italia s’era informato per giorni e giorni se c’era la possibilità di arrivarci dal Kentucky nave più auto, lo avevano affidato a uno psicologo; tornando da Roma a New York aveva anche scritto un paio di versi, una specie di filastrocca che intitolò “Come Cassius prese Roma” e che recitava «A far l’America la più grande mi sono impegnato/ perciò il russo prima, poi il polacco ho liquidato». Ma non è l’ispirazione di “Make America Great Again”: sarebbe tutt’altro che trumpiano il re del mondo.

NOME LATINO
Roma nel destino perché allora il ragazzone nero che aveva appena vinto l’oro nella categoria dei mediomassimi si chiamava Clay, Cassius Marcellus il doppio nome. Latino. Da eroe di Roma antica, anche se lo doveva più prosaicamente a un senatore abolizionista che era stato il padrone di un suo antenato schiavo, che il senatore aveva liberato. Anche Cassius Clay, una volta autoribattezzatosi Muhammad Alì, fu a suo modo un liberatore: di idee e di ideali. Black lives matter, urlerebbe oggi. Raccontava di aver gettato la medaglia d’oro di Roma nel fiume Ohio uscendo da un ristorante dove era andato a festeggiare. «Qui non serviamo negri» gli aveva detto il cameriere. «Ma io non ne mangio» aveva risposto Cassius che era capace di formidabili pugni e formidabili ironie. Come quando, erano gli anni della “sporca guerra”, gli chiesero «Sai dov’è il Vietnam?», «Sì, in televisione» rispose. Fu più caustico ancora quando lo arruolarono e volevano che andasse a combattere laggiù in Asia. Non per paura, ma per credo, disse di no: «Non vedo perché dovrei combattere i Vietcong: nessuno di loro mi ha mai chiamato negro». Gli tolsero il titolo mondiale dei massimi che aveva già conquistato e la licenza di combattere. Aspettò tre anni, andò fino alla Corte Suprema, riebbe la licenza e dunque anche la corona. Notti fantastiche come quella di Roma ’60. Il suo mito rinasceva nella giungla del Congo (“Rumble in the Jungle” chiamarono il match che a Kinshasa lo vide battere George Foreman, «Ali bomaye», uccidilo Alì, urlavano i suoi tifosi e l’eco rimbombava dai televisori di tutto il mondo, mattina, giorno o notte che fosse in loco, o poi a Manila, nelle Filippine, contro Joe Frazier, altro incontro che ebbe un titolo da film, “Thrilla in Manila”. Aveva tutti i mondiali che voleva, alla fine. Gli mancava la medaglia di Roma. Nel forziere di Losanna, dove conservavano quelle avanzate, ne presero una originale e gliela consegnarono. Era ad Atlanta, Olimpiadi del 1996. Alì la prese tremando. Non era l’emozione, che pure c’era, ma il morbo di Parkinson che ormai l’aveva colpito e che colpì il cuore d’ogni sportivo quando lo vide così tremolante accendere il braciere di quei Giochi “Usa e getta”, che erano l’esatto contrario di quelli che aveva “giocato” lui, le Olimpiadi del Roma. Del resto per dire di Atlanta devi raccontare di “Via col vento”, di “Coca Cola”, di “Cnn”. Per dire di Roma basta dire Roma. 
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