Morlacchi, nuotatore e portabandiera dell'Italia alle Paralimpiadi: «Seguiteci, saranno altri giochi da record»

Morlacchi
di Giacomo Rossetti
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Martedì 24 Agosto 2021, 07:30

Il più grande nuotatore paralimpico italiano è molto altro: futuro papà di Tommaso, appassionato lettore di fantasy (“soprattutto Licia Troisi”) e cultore di cibo nipponico. Il debutto nella vasca di Tokyo è tra due giorni, ma Federico Morlacchi è già pronto.
Si concludono le Olimpiadi dei record, si aprono delle Paralimpiadi dei record. Emozionato come la prima volta?
«E’ diverso, ma sempre bellissimo. La magia è girare per il villaggio e ricevere “ciao” da ogni angolo: sportivi che non s’incontrano mai, qui si riuniscono come una grande famiglia. Puntiamo a battere i nostri record, come i colleghi che ci hanno preceduto».
Il villaggio olimpico quest’anno ha meno fascino?
«Di sicuro è un po’ meno allegro, perché non poter uscire ti squarta l’anima, ma ci si diverte lo stesso. Per esempio, oggi (ieri, ndr) abbiamo fatto amicizia con due volontari che ci hanno portato in giro a vedere ogni angolo, saltando le file e contrattando per noi le spillette che qui sono ricercatissime».
Quali sono state le imprese degli olimpici azzurri che l’hanno più emozionata?
«Sarò un po’ di parte, ma dico l’argento negli 800 stile di Greg: è stato impressionante, visto quello che aveva passato. Io ho avuto la mononucleosi prima del mondiale di due anni fa, e so quanto debiliti in modo assurdo, con strascichi che ti lasciano senza energie durante gli allenamenti».
E l’oro di Jacobs?
«Un’impresa incredibile, quasi da non crederci. Ero in giro con la mia fidanzata e ce lo siamo visti sul telefonino. Neanche mi immagino cosa sarebbe stato con lo stadio pieno».
C’era qualche medaglia di cui era sicuro?
«Sì, avevo grandissima fiducia in Daniele Garozzo (argento nel fioretto individuale, ndr). E’ un agonista folle, sapevo avrebbe fatto bene. Da sportivo so che arrivare secondo dà sempre fastidio, ma non capisco chi parla di delusione nella scherma: ci sono dei cicli in ogni sport».
E’ stata l’ultima Olimpiade per Federica Pellegrini...
«Fede è una donna dalle mille risorse. Secondo me la vedremo ancora un po’ nel mondo del nuoto, ha segnato un’epoca. Da quell’argento ad Atene sono passati diciassette anni di fuoco: tanto di cappello. Ognuno deve ritirarsi quando se la sente, e Fede non deve rendere conto a nessuno».
Incrociando le dita, la nuova generazione del nuoto italiano - olimpico e paralimpico - può darci tante soddisfazioni.
«Il nostro è un popolo molto fortunato: siamo appena 60 milioni, ma abbiamo una quantità di talenti mostruosa, oltre a un continuo ricambio generazionale. Seppure non sempre le strutture ci stiano dietro, siamo al top in ogni sport».
Lei viene dall’oro nei 200 misti e dai tre argenti nei 400 stile, nei 100 rana e nei 100 farfalla conquistati a Rio: obiettivi?
«Migliorarsi, ovviamente».
Avversari da battere?
«Il mio amico e compagno Simone Barlaam».
Il covid imperversa da un anno e mezzo: da atleta ha sofferto molti disagi?
«Per fortuna, tolto il periodo da marzo a maggio 2020, mi sono sempre allenato. Quello che ci è mancato è la costante gara. Spero che Tokyo passi alla storia come un definitivo ritorno alla normalità».
L’assenza dei tifosi è l’aspetto peggiore di questa edizione?
«E’ una pugnalata al cuore. Quando penso all’entrata allo stadio Maracanà a Rio 2016, mi si accappona ancora la pelle. E’ un peccato pensare che alla mia Paralimpiade da portabandiera non ci sia il pubblico, sarebbe stata la ciliegina sulla torta».
Qual è la prima cosa che le viene in mente se le dico ‘Paralimpiadi’?
«La mensa (ride, ndr)! Concentrare il mondo in un solo posto, uno spazio sconfinato in cui trovi gente da ogni dove, è l’immagine perfetta della comunione. Alla mensa ognuno si sente un po’ a casa».
Lei come sgarra a tavola, quando può?
«Tonnellate di sushi: per me è una droga. Qui sono nel posto giusto, ho anche scoperto piatti molto buoni, come la zuppa di miso che è diversissima da quella che ho assaggiato in Italia. Vorrei tornare in Giappone per l’hanami, la fioritura primaverile dei ciliegi».
Cosa vuol dire per lei essere un atleta paralimpico?
«Vuol dire essere un atleta a tutti gli effetti.

Le uniche differenze di percezione sono quelle tra chi, come me, con una disabilità è nato e chi ci è incappato per incidente o malattia. Quindi tra quelli che ‘non sanno’ cosa hanno perso e coloro che scoprono nuove barriere, ma anche delle marce in più. Lo sport fa un grandissimo lavoro, permettendoti di scoprire al cento per cento i tuoi limiti: il prossimo step dovrebbe essere entrare negli ospedali e proporre sport a chiunque. Spero che quel giorno arrivi presto».

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