Amore, passione e una biglia: quando il ciclismo era Felice

Amore, passione e una biglia: quando il ciclismo era Felice
di Piero Mei
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Domenica 18 Agosto 2019, 09:30
Felice Gimondi inseguiva Eddy Merckx (e viceversa) anche sorridendo in maglia gialla, o rosa, o del fatale “biancoceleste” dell’”uomo solo al comando” che, prima di diventare un programma politico fin troppo vagheggiato, si chiamava “soltanto” Fausto Coppi. Lo facevano, Merckx e Gimondi che se n’è andato per sempre, vittima di un malore mentre faceva un bagno al mare in Sicilia, dove il mare è più blù, lui che era uomo di terra e di ogni terreno di gara da pedalare, da dentro una biglia di plastica trasparente, ciascuno la sua. Non andavano avanti a colpi di pedale, ma a schicchere, colpi di mano che impegnavano nei ragazzini di allora due dita, il pollice e il medio. Scattava il medio quando c’era la pista dritta, il pollice quando c’era la curva: pericolosa, perché si rischiava di “forare”, cioè di andare fuori al tracciato, disegnato, solitamente sulla spiaggia, trascinando per le caviglie il sedere di uno dei piccoli concorrenti, che non erano ancora nativi digitali come quelli di oggi che per i messaggini il medio non serve più, bastando il pollice. Però di tutte e due le mani. La stagione di questo ciclismo da mare era solo quella estiva. La stagione del ciclismo agonistico andava dalla rinascita del sole (si cominciava il giorno di San Giuseppe, 19 marzo, con la Sanremo) fino all’irrompere delle piogge (l’autunnale Lombardia mandava tutti in letargo). 
ANNI D’ORO
Erano gli anni che andavano a cavallo del Sessantotto, i tempi di Gimondi e di Merckx. Gli ultimi giorni di un ciclismo “eroico”, erede di quello già lontanissimo di Alfredo Binda, il “trombettiere di Cittiglio” al quale pagavano tutti i premi del Giro d’Italia purché non corresse e quindi non togliesse il sale della competizione. Come se oggi pagassero la Juve per non giocare il campionato. E di quello lontano di Coppi e Bartali, le cui imprese non avevano Pro-cam, né Var e nemmeno telecamere e dunque vivevano anche della tradizione orale che ogni volta le arricchiva di nuovi e più intriganti particolari: ma dietro lo “storytelling” non c’era il nulla che spesso c’era la fatica. Erano gli anni dell’avvento degli sponsor, i ciclisti trasformati in centimetri quadrati che urlavano le ditte (un’ondata di cucine, di salumi, di gelati, di supermercati, di caffè: quasi un catalogo dei gusti mutevoli dei consumatori) e si proponevano alle inquadrature televisive. Ma queste erano considerazioni di analisi più o meno sociologiche. Poi c’era il gruppo che passava, o l’uomo in fuga, la gente che scendeva per strada o saliva sulle montagne fin dalla notte prima: tutto per un volgere di testa, sentire un fruscio, vedere il campione, o forse solo immaginarlo perché chissà se là in mezzo era proprio lui. Sì, era Gimondi, era Merckx. Era il ciclismo. Poi tutto è cambiato: del resto era mezzo secolo fa. E se chi c’era riflette a tutto quello che c’era cinquant’anni fa e che è mutato non può che convenire che anche il ciclismo, e lo sport in generale, dovevano farlo. Ci fu l’uomo della transizione dalla campagna all’informatica, quell’ora sublime di Francesco Moser; ci furono i campioni del ciclismo “drogato”, i più grandi, i più misteriosi, le storie e storiacce mai del tutto chiarite. E il ciclismo, pure se la bici “a pedalata assistita” pendeva piede in città sempre più disperatamente alla ricerca di un traffico possibile, entrava in un cono d’ombra. Probabilmente anche per questo i campioni di una volta, i “duri e puri” come Felice Gimondi sono rimasti nel cuore e nella fantasia, social e no, di tutti, dal presidente Mattarella al meno “influencer” dei “followers”. Non ce n’è molti di così vincenti ed anche di così capaci di ragionare sulle proprie sconfitte: «Ho capito molto tempo dopo perché perdevo da Merckx: era più forte», ha detto una volta l’onesto Gimondi. 
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