Infinito Donato: «Ora voglio la mia sesta Olimpiade»

Infinito Donato: «Ora voglio la mia sesta Olimpiade»
di Mario Nicoliello
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Martedì 7 Marzo 2017, 10:35 - Ultimo aggiornamento: 16:11
Pista e pedane sono al buio, gli Europei sono già passato prossimo ma, mentre gli atleti più giovani si preparano alla serata di festa a conclusione delle gare, il più anziano della rassegna svolazza sorridente nel ventre della Kombank Arena. Sulle sue spalle, a mo' di scialle, penzola il vessillo tricolore, sul suo petto dondola una medaglia d'argento dal sapore sopraffino. A 40 anni e mezzo Fabrizio Donato ha la voglia di gareggiare di un quindicenne, così atterra sulla sabbia più lontano di rivali che potrebbero essere suoi figli. Il saltatore laziale ha salvato la spedizione azzurra sul suolo serbo, evitando lo zero nel medagliere che avrebbe certificato il fallimento. A batterlo nella finale del triplo solo il portoghese Nelson Evora, che in zona mista gli rende onore con quattro parole: «Lui è il migliore».
Fabrizio, dopo la qualificazione credeva nel podio?
«La mia gara buona è sempre stata la seconda, ma onestamente considerate le condizioni fisiche non mi potevo aspettare la medaglia d'argento».
Quindi non ha scherzato, stava davvero male.
«Ho avuto un risentimento al bicipite femorale, perciò ero molto limitato nella rincorsa. Ho gareggiato al limite, sul filo del rasoio, ma non potevo mollare».
Ha pensato di rinunciare alla finale?
«Pensando alla stagione all'aperto sì, perché un infortunio avrebbe compromesso tutto. Ma da capitano dovevo dare l'esempio. Ho saltato al 70% della forma col muscolo che mi pulsava. Ho azzeccato il salto buono e sono stato fortunato perché non mi hanno superato».
 
Qual è il segreto della sua rinascita?
«La scelta di allenarmi da solo. Soltanto così potevo avere nuovi stimoli per continuare. Adesso sono un atleta-allenatore. Oltre a pensare a me stesso, mi sono preso in carico anche Andrew Howe, creando un piccolo team con fisioterapista, preparatore atletico, nutrizionista, osteopata e psicologo sportivo».
È stata una decisione sofferta?
«No, direi naturale. Dopo Rio ho parlato col mio vecchio coach Roberto Pericoli e ci siamo intesi. Non avrei mai potuto cambiare allenatore e dopo 21 anni erano maturi i tempi per gestirmi da solo. Mi sono confrontato con Roberto Bonomi che mi ha raccontato l'epopea di Vittori e Mennea, consegnandomi un sacco di materiale da studiare».
Come è nato il sodalizio con Howe?
«Da una telefonata e un sms. È stato lui a fare il primo passo. Da quel momento è entrato nella mia vita, tanto che adesso mi accompagna anche a prendere le bambine a scuola».
A Belgrado il maestro ha battuto l'allievo.
«La mia medaglia è un segnale per Andrew. Lui merita molto in quanto professionista serissimo. La sua gara non è stata una controprestazione, perché prima dell'8,01 di Ancona non pensavamo nella convocazione. Il nostro obiettivo sarà la stagione all'aperto».
Solo di Howe o anche suo?
«Di entrambi. Non ho voglia di fermarmi, anzi penso già a Tokyo 2020 e alla mia possibile sesta Olimpiade».
Che messaggio vuole lanciare ai giovani azzurri?
«Di credere nelle proprie potenzialità e non arrendersi. Il nostro mestiere non è facile, ma con duro lavoro e tanti sacrifici i risultati possono arrivare».
Parola di un padre di famiglia che non vuole uscire di scena. Appuntamento a Londra in agosto. Cinque anni dopo il bronzo olimpico all'appello iridato il capitano risponde: «Presente».