In questa lunga intervista - firmata da Pino Corrias e Renato Pezzini per Raiuno, in onda sabato 26 maggio in seconda serata - raccontano di quando furono incaricati dal Comando di dare la caccia a Riina, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. «Arrivammo a Palermo nel settembre del 1992. Scoprimmo che di Riina non esistevano né foto, né informative, né dossier. Il suo fascicolo era di poche pagine. La verità è che tutti ne avevano paura».
Raccontano i mesi di pedinamenti e investigazioni, tutti passati in solitudine, il contributo del pentito Balduccio Di Maggio, gli istanti in cui riconobbero Riina mentre usciva dal suo rifugio, il momento dell’arresto, la corsa verso la caserma, la notizia su tutti i telegiornali in edizione straordinaria, il Comando dei carabinieri che la rilancia collegando per la prima volta tutte le radio-pattuglie d’Italia.
Dopo quella trionfale operazione, la più grande vittoria dello Stato contro la mafia, Ultimo – e il colonnello Mario Mori, che comandava il Ros – venne processato per non avere perquisito immediatamente la villa di Riina, ma solo 18 giorni dopo, quando moglie e figli del boss erano già tornati a Corleone e l’appartamento era stato svuotato.
Processo durato anni e finito con la piena assoluzione di Ultimo e di Mori. «La mia era soltanto un’ipotesi investigativa che ritenevo e ritengo giusta - dice ora il capitano Ultimo -. Proposi di non fare la perquisizione per seguire i fratelli Sansone, titolari del contratto d’affitto, e scoprire la rete di complicità che aveva coperto la latitanza di Riina».
Se i magistrati avessero deciso di scartare l’ipotesi investigativa proposta da Ultimo, il suo gruppo avrebbe ubbidito. Racconta Arciere, uno dei componenti del gruppo: «Caselli in quel momento aveva condiviso la nostra proposta di non perquisire. Era lui il capo supremo dell’indagine. Se ci avesse chiesto di perquisire, l’avremmo fatto». E Omar: «Mai abbiamo disobbedito all’ordine di un magistrato. Lo stesso Ultimo non ce lo avrebbe mai consentito».
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