Werba al Costanzi: «La Grande bellezza del mio Onegin, un dandy alla Sorrentino»

Il baritono austriaco Markus Werba
di Simona Antonucci
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Martedì 11 Febbraio 2020, 22:30 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 19:15

«Evgenij Onegin, oggi? Chi mi fa venire in mente? Il protagonista della Grande Bellezza, Jep Gambardella. Un po’ più giovane. Ma è lui, annoiato, cinico, scanzonato». Il lavoro di immedesimazione del baritono Markus Werba, 45 anni, austriaco, protagonista del lavoro di Čajkovskij, tratto dal romanzo di Puškin, al Teatro dell’Opera dal 18 febbraio (repliche fino al 29), comincia dal titolo premio Oscar di Sorrentino. Con Werba cantano anche Irida Dragoti, Maria Bayankina, Yulia Matochkina e Saimir Pirgu. Dirige James Conlon, regia di Robert Carsen
 

 


«Proprio come è successo con il film, anche in quest’opera ci sono delle frasi che sono diventate modi di dire. L’espressione “dalla nave al ballo”, che è il tragitto che fa il protagonista, in russo, si usa ancora oggi per definire una persona senza freni. Onegin come Gambardella vive in una società che non gli dà più nulla. Più che un dandy è un uomo svuotato. E arriva a uccidere un amico, così, perché si ritrova in una situazione da cui non può tornare indietro».



Werba un po’ dandy lo è: capelli chiari, occhi caldi, un vastissimo repertorio di sorrisi, arriva alla lirica, al Met, alla Scala, al Covent Garden, partendo da una rock band che spopolava nei pub della Carinthia. Gli cambia la voce, e la vita, frequenta il conservatorio e ne esce indossando i panni di Don Giovanni. “Deh, vieni alla finestra, o mio tesoro” diventa il suo cavallo di battaglia, non solo sul palco, prima di trasformarsi nel “Papageno” per eccellenza e poi assurgere all’olimpo delle voci che contano.

Carsen, il regista dello spettacolo, che interpretazione le ha chiesto?
«Nell’ouverture, c’è un Onegin cui è già successo tutto. Ricorda e rilegge la sua storia che non ha ancora risolto. L’arrivo in campagna dall’amico, il tentativo di portargli via la donna, l’amore di Tat’jana che riesce ad apprezzare quando ormai è perduto. L’arroganza, la noia. La scena appartiene a ogni epoca, anche se i costumi, le pistole del duello, sono ottocenteschi. Un palco minimalista perché l’attenzione della regia è tutta sull’interpretazione. E non mi dispiace. Oggi, siamo sommersi di immagini».

E da Conlon, il direttore d’orchestra, quali indicazioni?
«È un maestro sensibile, mai banale. Prezioso nell’indicare le sfumature del personaggio».

Un uomo che desidera la donna del suo amico e lo uccide in duello. Il tradimento, oggi, merita un duello?
«Quando è successo a me, che la mia compagna è andata via con il mio più caro amico, ho sofferto immensamente. Mi sono chiuso in casa per un bel po’. Onegin lo fa per provocare. Senza amore. È un personaggio complesso. E per me, oggi, musicalmente perfetto».

Figaro, Papageno, Don Giovanni, quali altri uomini vorrebbe cantare?
«Mi sono molto divertito come Malatesta nel Don pasquale di Michieletto. Adoro Figaro. Don Giovanni. Rodrigo nel Don Carlo. Canto da 23 anni, con calma arriverà un bel Macbeth, un Parsifal. Nel frattempo mi aspettano Pelléas et Mélisande alla Scala a marzo, poi Tannhauser, Mahler con Gatti, la Vedova allegra quest’estate a Caracalla».

Basta Papageno?
«Il Flauto magico mi ha portato fortuna. Sicuramente. Anche in amore. Mentre lo preparavo qui al Costanzi, ho incontrato una donna romana che è diventata mia moglie. Professionalmente devo molto a quel ruolo, anche se è arrivato il momento di nuove prove».

Oltre alle prove vocali, i cantanti oggi devono superare anche impegnative prove di regia. Ha mai imposto dei limiti?
«No. Anche se certe volte mi sono sentito quasi uno stuntman, in volo, o giù dentro una botola. Oggi non è più tempo di fare i capricci. Se ti impunti, i registi creano le condizioni per non farti più lavorare».

Lei ha cominciato con Strehler. Che cosa le è rimasto?
«Avevo 22 anni. Mi prese in Così fan tutte. Con lui ho capito come si sta sul palco. Come utilizzare lo spazio. Mi dedicava molto tempo. E io, giovanissimo, ero una spugna. È morto poco prima del debutto dello spettacolo. Fu spiazzante oltre che doloroso».

Quando torna a Milano, alla Scala dove è molto amato, fa visita a Leonardo da Vinci. A Roma?
«A Roma mi piace camminare. Sull’Appia antica impazzisco. Ma anche ai Fori, al Palatino. Con questa luce, la bellezza dei monumenti si moltiplica».

Ora che passa la maggior parte del suo tempo in viaggio, che cosa ricorda degli inizi in Carinthia?
«Ci torno appena posso.
Quelle valli sono un incanto. E mi ricordo bene quando le attraversavamo per fare i concerti con la nostra Sam Company, così si chiamava la band. Ma mi ricordo anche quando cominciai ad ascoltare Schubert, Mozart, Puccini. Un’attrazione potentissima. E le valli cominciarono a starmi strette». 

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