Tornano all'Argentina i ragazzi di vita pasoliniani

"I ragazzi di vita" all'Argentina di Roma
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Sabato 16 Dicembre 2017, 22:48
Un palcoscenico nudo, pochi oggetti di scena, 19 ragazzi di vita pasoliniani, interpreti di esistenze genuine e spregiudicate, fedeltà al testo e attenzione alla parola per un teatro di grande lirismo e comunicazione. Dopo lo straordinario successo della scorsa stagione, ritorna a Roma, al Teatro Argentina dal 21 dicembre al 7 gennaio, la vitalità irrefrenabile e poetica di Ragazzi di vita, creazione corale e struggente diretta da Massimo Popolizio, regista di grande competenza e inventiva, due premi alle Maschere come miglior regia e miglior spettacolo, per una messinscena presa d'assalto da un pubblico entusiasta, ampio ed eterogeneo (circa 15mila spettatori nel 2016, solo a Roma).

L'energia travolgente di quel piccolo popolo di ragazzi, protagonisti del primo celebre romanzo (1955) di Pier Paolo Pasolini, affiora dalla drammaturgia di Emanuele Trevi, che ne restituisce la lingua pasoliniana riavvicinando il teatro alla letteratura e rafforzando il legame tra il teatro stesso e le radici identitarie della Città. Il Riccetto, Agnolo, il Begalone, Alvaro, e ancora il Caciotta, Spudorato, Amerigo, sono alcuni dei ragazzi di vita dalla vitalità disperata, ritratta in presa diretta nel romanzo che esplode sul palcoscenico nudo per recitare la nuda povertà delle borgate romane con la loro dolcezza furiosa, la loro impulsiva esplorazione del mondo. Un brulichio di voci e corpi che parlano in romanesco e trascorrono le loro giornate alla ricerca di qualche lira e nuovi passatempi.

«In queste scene prevalgono una marcata gestualità e il parlato romanesco, o meglio quella singolare invenzione verbale, di gusto espressionista e non neorealistico, che Pasolini stesso definiva una lingua inventata, artificiale - ha raccontato Emanuele Trevi - Non è insomma la lingua in cui parlano effettivamente
“I ragazzi di vita, ma la loro lingua come viene percepita dal narratore, che è un uomo diverso da loro (in scena è interpretato da Lino Guanciale), e in tutti i sensi uno straniero».
Una lingua carnale, lirica, in azione, una lingua espressionista, che attinge dalla lingua reale delle borgate frequentate dall'autore al suo arrivo a Roma, nel 1950, carico del dolore causato dalla radiazione dal Pci, dall'allontanamento dall'insegnamento in una scuola media, dalla separazione dall'amato Friuli della giovinezza.
A guidare il vasto repertorio di personaggi in questo affresco dove le vicende si alternano suddivise in diversi episodi e archi temporali, è la regia di Massimo Popolizio che ci porta dentrò le giornate dei giovani sottoproletari. Racconti di vite con cui ci restituisce la loro generosità e la loro violenza, il comico, il tragico, il grottesco di uno sciame umano che dai palazzoni delle periferie si sposta verso il centro. «I ragazzì di cui parla Pasolini sono persone che lottano con la quotidianità
- ha proseguito Emanuele Trevi - Una vitalità infelice, la loro, e la cosa più commovente in quest'opera è proprio la mancanza di felicità. I ragazzi di vità, più in generale, sono un popolo selvaggio, una squadra, un gruppo, un branco di povere anime perdute ritratte nei dettagli del testo, cammini con le scarpe scarcagnate a viso in giù… se ne sta appeso così, con gli occhi scintillanti come dù cozze».
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