Teatro, in "Elenit" il mondo fantastico di Euripides Laskaridis

Teatro, in "Elenit" il mondo fantastico di Euripides Laskaridis
di Katia Ippaso
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Mercoledì 9 Marzo 2022, 11:23

Per Euripides Laskaridis, “Elenit” avrebbe potuto rappresentare quello che “8 %” è stato per Federico Fellini. Impresa riuscita solo in parte. Ci riferiamo allo spettacolo visto al Teatro della Pergola di Firenze. Era la prima volta che il performer, coreografo e artista greco (è stato anche collaboratore di Bob Wilson) veniva in Italia. C’era quindi una certa, giustificata attesa. Sapevamo della sua genialità inventiva, dell’atipicità delle scelte estetiche e della libertà associativa usata come indagine di lavoro. Elementi che abbiamo ritrovato in scena.

Le libere associazioni, soprattutto.

Prima dello spettacolo, abbiamo incontrato Euripides Laskaridis che ci ha rivelato il suo rapporto con l’oggetto e l’immagine: «In genere parto da un elemento che può essere di qualunque tipo: un cuscino, un cappello, una parrucca. A quel punto, cerco di interagire con questo oggetto fino al punto in cui, guardandomi davanti allo specchio, non mi riconosco più. Ecco, quello è il momento giusto per cominciare il viaggio della rappresentazione».

Di oggetti simbolici, sulla scena di “Elenit” (sottotitolo: “The Things we know we knew are now behind”), ce ne sono tanti, alcuni dei quali capaci di assoluto magnetismo: una pala eolica, dei pannelli argentei, i costumi indossati dai performer, a cominciare da Laskaridis stesso che si presenta nei panni di una dama mezza ottocentesca mezza fantascientifica che fuma una sigaretta elettronica e parla una lingua inventata, appoggiata ai fonemi della lingua greca. Accanto alla dama paurosa che si ingrandisce e rimpicciolisce in una logica tutta onirica, resta impressa la figura di un animale preistorico che conserva qualcosa del drago, a cui viene affidato il ruolo dell’alieno.  In realtà sono tutti alieni e doppi, in questo spettacolo lisergico che ha il potere di catturarti (oppure di lasciarti completamente freddo, insensibile). L’aveva detto Laskaridis, ed è poetica comune di molti artisti: ognuno ci vedrà ciò che vuole, non ho un messaggio preciso da comunicare 

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Con “Elenit” ci troviamo in un mondo fantastico, che ha preso il posto di un altro (quello a noi conosciuto), o forse stiamo passeggiando tra le stanze oniriche dello stesso Euripides Laskaridis che, per sua stessa ammissione, fa spesso riferimento ai propri sogni per creare le immagini degli spettacoli. Per questo ci è sembrato naturale riferirci a Fellini, ma anche a David Lynch, alle sue “Strade perdute”, ai suoi universi paralleli e volontariamente indecifrabili.  

Pensiamo, per esempio, a “Mulholland Drive”, dove la presenza di un cubo blu apre un varco da una dimensione all’altra. Nel caso di “Elenit”, il cubo blu rimane però fuori dal nostro sguardo. Si apre il sipario e noi siamo già dall’altra parte. Questo per dire che, nonostante l’indubbia fascinazione suscitata dalle scene (Loukas Bakas), dai costumi (Angelos Mentis), dal disegno luci (Eliza Alexandropoulu) e soprattutto dalla magnifica partitura sonora (Giorgos Poulios), manca la scrittura drammaturgica, che poi è la componente indispensabile affinché un sogno a occhi aperti diventi propriamente teatro. Il risultato è una giustapposizione di quadri, o di numeri, vizio che si sta estendendo a dismisura nell’arte teatrale contemporanea. E a proposito di numeri, i performer usano il linguaggio buffonesco senza però conoscere le regole ferree del comico e i tempi micidiali dei clown e delle loro famiglie circensi.  Ci muoviamo, insomma, in un terreno sdrucciolo, sicuramente magnetico ma ripetitivo. 

Veniamo, infine, al titolo. Perché “Elenit”? Laskaridis sostiene di averlo scelto perché Elenit è il nome che in Grecia danno a “un materiale corrugato” oggi fuori commercio che faceva parte del suo paesaggio quotidiano: «Quando ero ragazzo, vedevo Elenit dappertutto, non solo ad Atene, ma anche nelle isole». L’artista greco sa che in Italia quel materiale è stato chiamato Eternit.

Ma più che fare riferimento ai morti per amianto, Laskaridis gioca intorno al nome stesso. «Sia Elenit che Eternit richiamano mondi perfetti. Elenit vuole evocare la bellezza del mondo ellenico, mentre Eternit ci promette la vita eterna». Ed ecco spiegata la ragione per cui, sul palcoscenico del Teatro della Pergola, vediamo sfilare alcuni simboli della cultura ellenica come la Nike di Samotracia, ma decontestualizzati, decapitati. Da cittadino greco, Euripides deve sentire il peso di una cultura millenaria che oggi fa i conti con il default di un Paese in cui la storia si percepisce solo come presenza monumentale, muta: di qui il riferimento a un’archeologia di forme e saperi in estinzione.

Nel pianeta di “Elenit”, di certo partorito in sogno, niente si lega a niente. Bambole e assassini, carrelli della spesa, statue, innesti di corpi artificiali, resti di animali preistorici incrociati con altre razze, materiali argentei (forse ancora cancerosi?) e freaks di varia natura galleggiano tutti insieme in una palude post-umana. Così come al posto dell’organo chiamato cuore troviamo un organo meccanico a più teste che reagisce solo a stimoli sensoriali, in maniera simile fonemi incomprensibili si sono sostituiti al linguaggio: prefigurazione di un universo fantascientifico in cui la macchina artificiale avrà messo sul mercato solo scampoli del mondo millenario. “The things we know we knew are now behind”: le cose che sappiamo di aver conosciuto sono ormai alle nostre spalle. 

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