Vinicio Marchioni: «Siamo stati abbandonati per un anno: riapriamo i teatri, per noi sono il cibo dell'anima»

Vinicio Marchioni: «Siamo stati abbandonati per un anno: riapriamo i teatri, per noi sono il cibo dell'anima»
di Katia Ippaso
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Martedì 2 Marzo 2021, 08:28 - Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 05:11

«Così come è inalienabile il diritto alla scuola, allo stesso modo dovrebbe essere considerato prioritario il diritto a nutrire l'anima». Vinicio Marchioni è uno degli attori più apprezzati del nostro Paese, da Romanzo criminale in poi si è costruito una carriera fatta di scelte precise, concentrazione assoluta, studio rigoroso dei testi. Strumenti che nascono in palcoscenico (dove è nato artisticamente con Luca Ronconi). Pur riconoscendo il grande valore delle opere cinematografiche e televisive che lo hanno reso noto, il 45enne attore romano si considera uomo di teatro. Come tale, ha sofferto della grande rimozione: «Ci hanno abbandonato per un anno intero. Eppure il teatro è il vero nutrimento dell'anima».

 


Almeno adesso si dovrebbero riaprire le sale il 27 marzo, per la Giornata Mondiale del Teatro.
«Ho il sospetto che, considerando le curve dei contagi, non sarà possibile. Però è il segno di una inversione di tendenza. C'è un'attenzione lievemente maggiore negli ultimi giorni».
Spera di debuttare con Chi ha paura di Virginia Woolf di Albee?
«Accanto a Sonia Bergamasco, stiamo facendo le prove dello spettacolo diretto da Antonio Latella, che è atteso ad aprile al Piccolo di Milano. Me lo auguro con tutto il cuore».
Oggi inizia il Festival di Sanremo. Dopo tutte le polemiche ha qualche considerazione da fare?
«Sì, una considerazione ce l'avrei. Perché non chiamare tra il pubblico coppie di attori congiunti che stanno a casa da tempo senza lavorare? Forse è solo una provocazione, ma come al solito nessuno si è preso la briga di interpellarci».
A proposito di coppie di artisti, da qualche anno ha fondato con sua moglie, l'attrice e scenografa Milena Mancini, la società Anton Produzioni, da Anton Cechov, mito che riconcorre da anni e che lo ha portato a viaggiare fino in Russia.
«E' vero. Cechov è uno di quegli autori che ti cambia la testa e che non finiresti mai di studiare. Oltre ad avere messo in scena Zio Vanja come regista ambientandolo in una città terremotata, ho girato in Russia un documentario, Il terremoto di Vanja, che nel 2019 è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma e spero che prima o poi uscirà su qualche piattaforma. Cechov era un medico che solo a un certo punto della sua vita ha avuto il coraggio di assumere su di sé la propria vocazione di scrittore. Ecco, è come se la frequentazione di Cechov mi avesse aiutato a prendere definitiva coscienza del fatto che io ho il dovere deontologico di conoscere meglio tutto quello che gira attorno al mio mestiere di attore e regista».
Che cosa le trasmette invece la scrittura di Dino Campana, di cui continua ad interrogare (con lo spettacolo La più lunga ora) i Canti Orfici?
«Campana ha vissuto gli ultimi 14 anni della sua vita in una stanza di manicomio, e ancora mi continuo a chiedere: come fa un artista a sopravvivere in solitudine e a sopravvivere senza il riconoscimento degli altri? E' necessario oggi uscire sui giornali, comunicare sui social? In questo periodo di isolamento anche io ho usato i social, però vorrei fare soltanto il mio mestiere. Perché lo amo. Il centro del mio mestiere è il mio mestiere».
Come socio di U.N.I.T.A (Unione Italiana Interpreti del Teatro e dell'Audiovisivo), sta facendo una battaglia con altri colleghi per i problemi cronici del teatro.
«Grazie ad U.N.I.T.A., tra di noi stiamo parlando molto di più. Alla fine stiamo cercando di trovare un'unica lingua. I problemi economici ci saranno sempre. Dobbiamo innamorarci di più l'uno dell'altro, uscire dall'isolamento».
 

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