Silvio Orlando in "Lacci" al Piccolo Eliseo: «Da prelato a sessantottino con il peso del tradimento»

Silvio Orlando in "Lacci" al Piccolo Eliseo: «Da prelato a sessantottino con il peso del tradimento»
di Leonardo Jattarelli
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 25 Gennaio 2017, 08:00 - Ultimo aggiornamento: 30 Gennaio, 20:42

«Mi ritrovo al centro di una catastrofe familiare tra speranza e illusione. Torno a casa dopo quattro anni e mi consegno, come farebbe un prigioniero di guerra, al sadismo e alla mancata possibilità di perdono da parte di mia moglie che mi inonda di veleno». Ha la barba bianca, lo sguardo austero dietro una montatura nera, il tono grave di chi sembra essere già in palcoscenico nelle vesti di un uomo perduto. Silvio Orlando, lasciati per una breve parentesi i panni dell'ormai celebre cardinale Voiello per The Young Pope di Sorrentino, racconta con malcelata sofferenza il suo spettacolo in scena da oggi al Piccolo Eliseo. Sembra portarsi dietro il suo personaggio di Lacci di Domenico Starnone, un ex sessantottino che, dopo anni di lontananza dalla sua famiglia e un tradimento conclamato, deve vedersela con ciò che resterà di una coppia, di un rapporto con i figli.

Cosa rende Lacci uno spettacolo di estrema modernità?
«Parliamo della consunzione di un amore e delle conseguenze sulle generazioni successive. Di una famiglia disastrata. Portare in scena un autore contemporaneo non è mai facile visto che a teatro resiste un conservatorismo a tutela dei grandi maestri. Ma in Lacci il tema è talmente potente, dilagante ed è così contemporaneo che valeva davvero la pena provare. Ognuno può riconoscerci un pezzo della propria vita, della propria coppia»

Il suo protagonista in qualche modo rinnega anche una ideologia che l'aveva sempre guidato. Oggi siamo orfani di ideologie, sopraffatti dal populismo e dal potere smisurato dell'ego. Cosa ne pensa?
«Credo che tutta questa attenzione elettronica produca alla fine strani algoritmi, delle post verità spesso fasulle. Forse è venuto il momento di fermarsi a ragionare. Perché poi cresce l'individualismo malato che difficilmente ci può legare agli altri esseri umani. Ci mette in contatto con gli utenti della Rete ma non con le persone. Che faticano a vedersi. Assistiamo ad una vera desertificazione dei rapporti».

Come è strutturato lo spettacolo?
«È diviso in tre grossi blocchi. L'abbandono, quando la moglie legge le nove lettere scritte al marito durante gli anni di lontananza. Poi il rientro, nel momento in cui la coppia torna a casa dopo le vacanze e la trova devastata dai ladri; nel rimettere a posto le cose lui s'imbatte in queste lettere e racconta il proprio punto di vista. Infine, un piccolo passo indietro, ed è la volta del giudizio dei figli. Il linguaggio di Starnone è spietato, lucido, crudele, chirurgico ma anche molto semplice. Disarma il pubblico che viene tirato dentro questa ragnatela di parole. Ecco, si tratta di un teatro di parola, importante. Quella fiducia nella parola che non c'è più. È diventata un'arma spuntata».

Mentre stiamo parlando, in America The Young Pope e il suo cardinale Voiello stanno trionfando alla tv...
«Faccio ancora fatica a credere a questo successo, mi fa veramente impressione. Perché ho dovuto recitare in inglese con la certezza che mai sarei riuscito a far sentire la mia voce non doppiata. Dicono sia andata bene, io mi fido. Siamo tutti molto felici. Avevamo anche un coach specializzato negli idiomi dei diversi Stati americani. E così anche il londinese Jude Law ha dovuto studiare».

Qual è il segreto di The Young Pope secondo Orlando?
«Credo ci sia un solo artefice del successo e si chiama Sorrentino. Vive una trance creativa impressionante. Tutto gli riesce. Passare dall'ora e tre quarti di un film a dieci ore di serial senza perdere smalto è una cosa che non riuscivo a immaginare. La storia è avvincente e in fondo l'Italia all'estero viene individuata per Gomorra, il cibo e il Papa. Riprenderemo a girare tra luglio e agosto e stavolta l'ambientazione sarà ancora più romana».

Qual è la situazione del nostro cinema?
«Quello che abbiamo fatto negli anni 90 sta registrando una crisi strutturale. Il pubblico che andava a vedere in nostri film non ci va più. È il risultato della desertificazione di cui parlavo prima. Quei film non stanno bene nelle multisale; gli americani si sono accorti del fenomeno e hanno creato serie di grandissima qualità con grossi nomi per recuperare il pubblico interessato, colto, sofisticato. E lo soddisfano facendolo accomodare sul divano di casa».

Con il successo americano è arrivata la beatificazione di Silvio Orlando?
«Quando avevo sei anni, in classe la maestra organizzò una recita di Pinocchio e mi diede il ruolo del protagonista. Rimasi a bocca aperta, venne la direttrice a vederci e io mi sentivo un dio. Io che ero sempre rimasto defilato. Poi per le vacanze la maestra mi diede da preparare il monologo di Antonio e Cleopatra. L'ho recitato in classe, lei m'ha guardato e m'ha detto Ma cos'è? Va a posto va! Insomma il top e il flop. Da bambino prodigio a deficiente. Ecco, mai dimenticare la legge dello spettacolo!».