Mascia Musy, l'Anna Karenina di Eimuntas Nekrošius ricorda il gigante del teatro

Mascia Musy, l'Anna Karenina di Eimuntas Nekrošius ricorda il gigante del teatro
di Andrea Velardi
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Giovedì 22 Novembre 2018, 14:57
 Con un gesto irrituale, ma emozionante, timido, doveroso ha interrotto ad un certo punto il lungo applauso del pubblico per la prima del 21 novembre al Teatro La Cometa di Roma di “Master Class” dove aveva appena finito di interpretare ( e continuerò a farlo fino al 2 dicembre) una Callas ormai fuori dalle scene, ma ferocemente  glamour e passionale che gestisce una lezione di canto con una timbrica a due fasi,  martellante e leggera, ironica e melanconica, sprezzante e compartecipata, dove tenacia greca, armonia classica, fremito melodrammatico si miscelavano al passato esaltante e doloroso della vita di un mito.  Ma l’improvvisa morte del grandissimo regista teatrale lituano Eimuntas Nekrošius nella notte del 20 novembre aveva attraversato con un sottotesto ancora più viscerale e lancinante la immedesimazione di Mascia Musy che, sotto la regia di Nekrosius è stata la Anna Petrovna dell’Ivanov di Anton Čechov nel 2002 e poi Anna Karenina di Lev Tolstoj nel 2008 vincendo il Gassman, gli Olimpici del Teatro e l'Ubu, oltre ad una nomination al Golden Graal.

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Eimuntas Nekrošius, il regista visionario e ipnotico, ostinato e rutilante, spietato e lieve, paradossale e magnetico  ci ha lasciati appena due giorni prima di compiere domani 22 novembre i suoi 66 anni lasciandoci la memoria solenne di messe in scena uniche dove veniva realizzato un’ intreccio totale, metamorfico e alchemico del teatro della testualità in un teatro della pregnanza energetica dei corpi, dei gesti, dei movimenti, della spazialità, di una vocalità liturgica in cui il mantra linguistico ancenstrale e sonnambolico si alternava al silenzio dello spazio abitato, degli oggetti intesi nel loro valore quotidiano e arcano, strumentale e archetipico, che diventavano immagini dalla visionarietà non più sdradicabile dalla memoria, la cui carica simbolica si sprigionava a partire dalla loro presenza come totem ossessivi e incombenti come a segnare, come il lampadario di ghiaccio che si scioglieva lentamente durante il suo Amleto, il ritmo irrefrenabile di un tempo folle della psiche e insieme della sua esanime deflagrazione, segno di inquietudine e invincibile autodistruzione o gli orologi dell’Anna Karenina che simulano il movimento inesorabile delle ruote del treno che distrugge la vita dell’eroina tolstoiana mentre invoca: «Signore, perdonami tutto!».

Il teatro di Nekrošius è stata l’affermazione di una continua reinvenzione che ha decostruito totalmente la tradizione della rivisitazione, del rifacimento, del riadattamento teatrale, per compiere una continua osmosi e traduzione di linguaggi verbali e non verbali, in cui corporeità, movimento, scenografia, coreografia a volte sovrastavano la parola, la testualità che diventava come la piattaforma programmatica di un continua ri-creazione che privilegiava l’esplosione emotiva ed espressiva al ripiegamento introspettivo e alla verbalizzazione dei vissuti. Una creazione che ha avuto i suoi autori privilegiati in William Shakespeare e Anton Čechov, ma anche Puskin visto che dopo il debutto in Italia nel 1989, grazie alla Fondazione Teatro Due, con «Pirosmani Pirosmani» e «Dédé Vania», Nekrošius tornò nel 1995  con «Le tre sorelle» di Čechov  e tre drammi di Puskin (Mozart e Salieri, Don Giovanni e La peste) e poi co-produrre nel 1997 la  trilogia shakespeariana «Hamletas, Makbetas e Otelas». Il suo Čechov ripristinava la commistione tra grottesco e drammatico, ridicolo e tragico di questo classico che occhieggia al vaudeville, quella commistione che riverberava attraverso una regia attenta al meccanismo della sospensione, all’equilibrio temporale che si dischiude in oasi di pura e assoluta simbolicità scenica, dentro cui i personaggi non vivono più la drammaturgia del testo, ma la reintepretrazione, anzi la riscrittura visionaria e ipnotica del regista. Riscrittura in cui la corporeità e la fisicità avevano un ruolo centrale tanto che gli attori venivano sottoposti ad uno  sfibrante lavoro sulla fisicità, un’ inabitazione interpretativa in  totale connessione con la psiche, secondo un modello anti o oltre-Stanislavskij.

Mascia Musy ha vissuto tutto questo nel ritiro in Lituania dove ha preparato con Nekrošius il personaggio di Anna Petrovna, conosciuta anche col nome da nubile di Sara Abramson, che aveva abbandonato la religione ebraica per sposare, secondo il rito della Chiesa ortodossa, Nikolai Ivanov. Ignara della sua malattia ai polmoni, Anna-Sara assiste desolata all’amore tra suo marito Ivanov e Sasha, figlia di Pavel Lebedev, Presidente del consiglio di distretto rurale e intimo amico di Ivanov, nella cui casa trascorre il suo tempo al posto di stare vicino alla moglie malata.
Musy ricorda il poeta, il debito che ha con quell’incontro: «gli devo quel che sono e quel che ho imparato». E poi sottolinea delle ossessività oblique, paradossali per un regista la cui biografia è consistita nel rivivere totalmente il teatro ed elenca insegnamenti e percezioni ricevuti che solo apparantemente sono contradditorie con quanto abbiamo scritto e che rivelano la complessità dell’approccio post-drammaturgico di Eimuntas Nekrošius. «Era un maestro di vita e di arte, mi ha insegnato a non fidarmi totalmente del regista perché il miglior maestro sei tu stesso. Anzitutto mi ha insegnato che la Vita viene prima del Teatro, mi ha insegnato a ‘non vivere per il teatro’. Lui, un genio del teatro, metteva al centro del suo lavoro solo l’Attore e le sue potenzialità. Mi ha insegnato ad avere fiducia nel tuo talento, nella tua ‘voce personale’, a credere nella tua fiamma, anche se piccola».

Forse è stata proprio la non centralità del teatro inteso come ruolo totalizzante e sacralizzazione incongrua della drammaturgia e della recitazione a permettere a Nekrošius di reinventare così genialmente il teatro novecentesco. Con un atteggiamento di totale libertà, che contrasta solo apparantemente con lo sforzo e la precisione richiesti al congegno  dell’opera e alla perfomance attoriale: «E’ meglio sbagliare ma non tradire se stessi  piuttosto che unificarsi perdendo il tuo sguardo e il tuo pensiero, bisogna credere in noi stessi e nella potenzialità dei nostripensieri, perché è meglio una cosa sbagliata piuttosto che una giusta ma non tua. E’ meglio un lavoro non finito piuttosto che uno compiuto e perfetto perché non porterà più freschezza, meglio l’incompiutezza». E’ forse proprio questo incompiuto ad avere fornito al regista lituano i margini per rigenerare, tra vuoti e pieni, tra simbolo e silenzio, la forma del teatro. E non deve stupire se dietro alla sua enfatizzazione del fisico, del corporeo e dello spaziale ci sia in profondità il tentativo di una inedita riscoperta dell’anima: «Mi ha insegnato a dare più importanza all’Anima che al corpo, se al nostro corpo dedichiamo del tempo, dobbiamo dedicare del tempo anche all’Anima, mi ha insegnato a concentrami sui sentimenti e sulle emozioni perché i sentimenti non svaniscono, ma si accumulano dentro di noi per sempre e non si ammalano mai. Il nostro lavoro vive solo di sentimenti, l’unica cosa concreta che abbiamo per lavorare. E’ meglio recitare trattenendo e risparmiando sentimenti ed emozioni».

D’altra parte la valorizzazione dell’anima e delle emozioni passava per dura ascesi che implicava a sua volta l’abbandono di ogni cliché e di ogni stereopito attoriale: «Mi ha insegnato a non fidarmi troppo della tecnica e del mestiere, è importante rischiare, se non trovi il coraggio di rischiare resterai come sei. Ripeteva spesso che tutto quello deve accadere accadrà, quando aspettiamo qualcosa che non arriva dobbiamo avere Pazienza, esercitarla continuando ad impegnarci nel nostro lavoro, non permettendo mai alla mente di addormentarsi, perché se chiudi gli occhi puoi non riaprirli più». Mentre Eimuntas Nekrošius ha risvegliato tutti noi attraverso il sogno, la trance di una immedesimazione visiva e onirica unica e irripetibile.
 
 
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