Oksana Lyniv al Teatro dell'Opera di Roma: «La mia Turandot con Ai Weiwei contro i dittatori che oltraggiano il mondo»

Oksana Lyniv, 44 anni, direttrice d’orchestra (@Astrid Ackermann)
di Simona Antonucci
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Mercoledì 16 Marzo 2022, 11:14

«Il boia che uccide i pretendenti di Turandot si chiama Pu-tin-pao. E ogni volta che il coro lo invoca, definendolo il carnefice, penso veramente che certe strane coincidenze, forse, coincidenze non sono. Io sono ucraina, Putin sta massacrando il mio popolo, e mi trovo qui sul podio con il Pu-tin di Puccini che toglie la vita ai perdenti. Sono andata a cercare sul vocabolario il significato della parola e la traduzione dall’inglese recita: crudele, senza pietà, implacabile». Oksana Lyniv, 44 anni, direttrice d’orchestra, è al Teatro dell’Opera di Roma, per le prove di Turandot che debutta il 22 marzo (repliche fino al 31), con la regia di Ai Weiwei, artista cinese dissidente che intreccia per la prima volta il suo linguaggio contemporaneo con un classico del repertorio. E che dal 25 espone “La Commedia Umana” alle Terme di Diocleziano, una monumentale opera composta da oltre duemila pezzi di vetro soffiato a mano e fuso dai maestri vetrai di Berengo Studio di Murano.

Bayreuth

Con la fascia dei colori del suo Paese a cingerle la vita, Lyniv è stata la prima donna nella storia del Festival di Bayreuth a salire sul podio, la prima donna a ricoprire il ruolo di direttrice musicale in un lirico italiano (da gennaio è al Comunale di Bologna), tra i primi artisti a scendere in campo contro il conflitto: «Rappresento l’Ucraina e gli ucraini sui palchi del mondo.

L’arte del mio Paese, i musicisti che non sanno quando potranno tornare a lavorare, i teatri trasformati in sale parto».

Che cosa pensa di questa produzione con la Pechino di Puccini trasformata in una terra di emigranti e un’installazione ispirata a Roma e alle sue rovine imponenti e fragili, come il pianeta?

«Sono felice di essere qui per questo progetto. Ai Weiwei non è semplicemente un artista famoso, ma un uomo profondamente calato nella società, impegnato in molte battaglie umanistiche e ambientali. L’arte ha il potere di far riflettere su che cosa succede. E fin dal primo incontro con lui ho sentito una sintonia culturale e spirituale».

Quindi vedremo una Turandot contemporanea?

«É la Turandot di Puccini da leggere anche alla luce dei nostri tempi. O meglio della storia dell’ultimo secolo».

Su che cosa si concentra la vostra interpretazione?

«Ai Weiwei, e io sono in totale accordo, vuole mettere l’attenzione su un problema globale, che attraversa i secoli e i Paesi: la lezione della storia che non sappiamo imparare. Le ostilità tra popoli, le lotte per la libertà che nonostante il passare del tempo sembrano ripetersi, con nuovi dittatori che oltraggiano il mondo».

Puccini muore prima di scrivere l’happy end. Anche questa è una di quelle strane coincidenze?

«Puccini muore, sì. Ma non riusciva a trovare la musica giusta per un finale in cui l’amore trionfa su tutto. Secondo me è stato in qualche modo profetico. Uno stato d’animo che anticipava quello che sarebbe successo da lì a poco nel mondo».

Si ferma alla morte di Liù.

«Una donna che si uccide per amore, ma anche per denunciare la crudeltà del potere. Innocente, vulnerabile, ma fortissima. I sentimenti che manifesta non muoiono con le lei».

In quale modo Puccini è profetico?

«Lui porta alla luce la manipolazione che subiscono i popoli. Impauriti, nell’impossibilità di avere un’opinione personale. E questo nel Novecento accade, insieme con le guerre e le invasioni».

Lei come percepisce la figura di Turandot?

«È un’imperatrice, crudele, dittatrice. Ma molto infelice. Il compositore ci accompagna alla scoperta di questo personaggio, dei suoi traumi infantili. Non è nata crudele, lo è diventata. È il suo modo di proteggersi. Ha paura del mondo, di aprirsi, di essere empatica: recita questo ruolo per difendersi».

Cerca un uomo che la seduca con l’intelligenza, in grado di risolvere gli enigmi.

«Sta cercando qualcuno che sia in grado di guardare dentro la sua anima. Che vada oltre e la capisca nel profondo. E questo è un altro tema importante, secondo me, perché aiuta a riflettere sulla complicazione delle relazioni umani. Gli aggressivi spesso sono sempre i più deboli».

Anche i russi?

«No. Quello che stanno facendo non è soltanto un’aggressione. È inqualificabile».

E lei pensa veramente che l’arte possa essere un’arma?

«L’arte ha un ruolo, soprattutto per le future generazioni. Quello di far percepire musica, dipinti, teatri non soltanto come momenti di intrattenimento, ma di reale confronto: l’occasione per mettere sul tavolo quello che succede».

L’arte è diventata un campo di battaglia, si vieta Dostoevskij nelle università, alcune opere dovranno lasciare i musei europei per tornare in Russia...

«Tutto è drammatico perché ormai è tardi. E tutto il mondo è coinvolto. Certo si può discutere su questo tipo di sanzioni. Domandarci se si può o meno suonare Rachmaninov. Io però vorrei riportare l’attenzione alla realtà. In Ucraina i miei studenti hanno paura di tirar fuori gli strumenti dagli involucri perché in qualsiasi momento si può scatenare l’inferno. Mentre a Mosca, il rettore dell’Accademia musicale supporta Putin apertamente. Il problema, purtroppo, non è soltanto Putin, ma i russi che da anni lo considerano il miglior presidente».

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