L'allarme di William Kentridge: «L'affresco lungo il Tevere sta scomparendo»

Kentridge durante le prove di Waiting for The Sibyl al Teatro dell'Opera
di Simona Antonucci
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Lunedì 9 Settembre 2019, 21:29 - Ultimo aggiornamento: 21:31
«Roma è una città diffusa. Il suo respiro è ovunque. Ci sono tracce della sua eredità in ogni parte del mondo. Il latino si è insinuato nell’inglese, nelle lingue romanze. Il codice romano continua essere il termine di paragone per scambi sociali e studi legali. Roma per me rappresenta la continuità, un’onda che attraversa i secoli e le civiltà. Proprio come il suo fiume. È così che la immaginai quando arrivai la prima volta, a sei anni, con gli occhi incantati. Venivo dal Sudafrica, dalla “periferia” della Terra. E quest’incredibile commistione di storia, arte, rovine e grandezza mi introdusse nel cuore dell’Occidente».

William Kentridge, 63 anni, a Roma per il suo spettacolo al Teatro dell'Opera
“Waiting for the Sibyl” (seconda parte di un evento aperto da “Work in Progress” di Calder), è l’autore di opere che occupano palcoscenici e musei, grandi schermi e grandi muri come quello su cui è nato nel 2016, Triumphs and Laments, il fregio monumentale lungo le sponde del Tevere. Una marcia silenziosa di personaggi, da Romolo e Remo alla Dolce Vita, con cui l’artista sudafricano ha scritto la sua storia della città. Un’opera effimera, realizzata in “negativo”, per cancellazione, ripulendo la patina biologica del travertino. Destinata a scomparire.

Quanto potrà durare ancora?

«Sta scomparendo più velocemente di quanto avessi immaginato. Pensavo fosse visibile per almeno sette anni. E invece il processo è in anticipo di almeno un anno, se non due. Pian piano le immagini si trasformeranno in ombre che emergono dalla pietra. Molto dipende dalla manutenzione, dalla rimozione delle radici, del muschio e delle tag. Ormai non dipende più da me. Presto rimarrà solo nel ricordo di chi l’ha visto. O nelle migliaia di foto e video in circolazione. Ma mi piace che sia così».

Che cosa ha visto nel Tevere?

«L’ho sempre percepito, sin da quando lo vidi da bambino, come uno strano posto, con erbacce scure sul fondo, racchiuso da muri imponenti. Abbastanza deserto. Completamente diverso dalla Senna o dal Tamigi, sia in termini di grandezza, sia in termini di abbandono».

Qual è la sua bellezza?

«Essere il fiume che attraversa una città che ha più di Duemila anni. Onde che trascinano il passato, senza mai tornare indietro. La sua bellezza è il continuo fluire». 

Qual è la grandezza di Roma?

«Roma è grande e terribile. Una storia che va oltre i suoi confini. Roma è stata un maremoto nel mondo. E molto di quello che succede oggi in Europa ha a che vedere con l’impero di duemila anni fa.
Le guerre tra Roma e Cartagine, i rapporti tra Europa e Africa. Il Mediterraneo come luogo di conflitti e di incontro tra i due continenti. Un mare che accoglie e in cui si va a fondo
».

Quando le è capitato di aver riconosciuto la presenza di Roma nel mondo?

«Sempre. Non direttamente, ma ovunque. La lingua che parlo. Gli studi. Uno dei punti centrali dell’educazione colonialista è l’apprendimento al liceo del latino. Così come i testi fondamentali di Legge: erano romani. Ci sono tracce disseminate ovunque e dentro la mia memoria. Non solo le immagini cartolina, la Bocca della Verità, i carabinieri, la scalinata di Trinità dei Monti, che colpiscono i turisti, adulti o bambini, quando arrivano in città. Ma le emozioni e le storie che hanno accompagnato la mia adolescenza, La Dolce Vita, Marcello Mastroianni, Anita Ekberg nella Fontana di Trevi. Momenti fondamentali della mia crescita che poi ho raccontato sul fregio lungo il Tevere».

Qual è la sua storia di Roma?

«Ho scelto personaggi importanti per la mia formazione, come i film di Fellini, o Jeremia della Cappella Sistina, Masaccio, anche se non ha particolari relazioni con Roma, e poi protagonisti eroici, Marco Aurelio e Garibaldi, anche per creare una continuità tra uomini che hanno rappresentato la loro grandezza a cavallo. E poi capitoli che conoscevo meno, legati alla costruzione di San Pietro o il Ghetto, momento storico vergognoso, che ho scoperto solo di recente».

Hai mai pensato di creare un affresco del genere anche in altre città?

«Me lo hanno chiesto. Ma si dovrebbero presentare le stesse condizioni. Il travertino e quel tipo di batteri che anneriscono i muri in un certo modo. Una striscia di fiume come il Tevere in quel punto, con la stessa storia. E le emozioni e le connessioni che si sono create tra la città e il mio modo di vedere l’arte».

Il suo nuovo progetto romano è al Teatro dell’Opera.  

«Si chiama “Waiting for the Sybile”, andrà in scena dal 10 al 15 settembre, il secondo atto di una serata. Nella prima parte verrà riproposta lo spettacolo che Calder fece per il Costanzi nel 1968, “Work in progress”. Il mio non sarà esattamente una risposta a Calder. Ma a che cosa mi ha evocato il movimento dei suoi mobiles. Come le storie evolvono, le pagine con le premonizioni della Sibilla che volano via nel vento. Il caso, il fato, il nostro modo di rapportarci con il destino. Ho lavorato con dei compositori sudafricani, musicisti e cantanti del mio Paese. Sono felice di essere di nuovo a Roma».
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