Il compositore Giorgio Battistelli alla Fenice di Venezia: «Ci vogliono Baruffe per rifondare i teatri»

Le baruffe, da Goldoni, con la musica di Battistelli e la regia di Michieletto alla Fenice dal 22
di Simona Antonucci
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Martedì 15 Febbraio 2022, 18:19

«I teatri, così come li abbiamo conosciuti finora, hanno fatto il loro tempo. E noi che scriviamo opere di oggi, abbiamo difficoltà a rappresentarle in posti che appartengono ad altri secoli. Ma invece di ricercare il nuovo, sembra che non si faccia altro che ridare forza all’esistente. I fondi del Pnrr stanno andando in questa direzione. Anche se non sempre l’esistente riesce a dare una risposta al nuovo». Lo dice Giorgio Battistelli, compositore romano, 68 anni, Leone d’oro, appena applaudito per il suo Julius Caesar, alla vigilia del debutto di una sua nuova opera, in un teatro “secolare”, La Fenice di Venezia: Le baruffe, da Goldoni, con la regia di Damiano Michieletto.

La prima il 22, l’anteprima il 19 in onore di Marsilio, in un week end di festa: il 17 si apre la mostra Il Carnevale squarcia la nebbia, con documenti dell’Archivio della Biennale sui Carnevali di Scaparro, e il 18, vernice dell’installazione di arte, musica e teatro che Michieletto firma per la Biennale: 850 mq a Forte Marghera che ospitano Archèus.

Labirinto Mozart”, viaggio iniziatico per tutti i sensi. Dopo il debutto, Le baruffe restano in scena fino al 4 marzo. Dirige il maestro Enrico Calesso, cantano Alessandro Luongo nel ruolo di padron Toni; Valeria Girardello in quello di madonna Pasqua; Francesca Sorteni in Lucietta; Enrico Casari è Titta-Nane; Marcello Nardis è Beppo; Rocco Cavalluzzi (padron Fortunato); Loriana Castellano (madonna Libera); Francesca Lombardi Mazzulli (Orsetta); Silvia Frigato (Checca); Pietro Di Bianco (padron Vicenzo); Leonardo Cortellazzi (Toffolo) e Federico Longhi (Isidoro).

Musica contemporanea e dialetto chioggiotto, un coro che “rappa”. Che succede? È Carnevale?

«Un progetto un po’ folle. Un’opera di produzione contemporanea raramente tratta Goldoni, in dialetto, perché viene “relegato” al mondo classico. Di solito le scelte vanno sul presente, post moderno, metropolitano. Oppure sull’epico. In mezzo non c’è nulla. Eschilo, Shakespeare e poi Bernhard. E creare un ponte tra la musica astratta e le venature comiche e grottesche del dialetto chioggiotto, per noi è stata un’impresa sperimentale».

Che cosa si sperimenta?

«Ho cercato di rimanere fedele al dialetto, senza piegare la parola alla scrittura musicale. Ho riprodotto il fraseggio irregolare tipico della lingua. Da un punto di vista sonoro sembra un merletto, anche perché le chiacchiere, le ciaccole, cambiano nota continuamente, alto e basso continuo».

E il coro rap?

«Abbiamo inserito il coro per dare voce alla collettività, alle baruffe, appunto. Le parole sono inventate, scelte più per il suono che per il significato».

Con strumenti d’epoca?

«Ho voluto un’orchestra classica perché non c’è un recupero etnico, popolare. Forte dimensione timbrica per un affresco di voci e nebbie. Suoni che accompagnano cose semplici, i riti, l’innamoramento, i matrimoni e le liti. All’interno di una collettività di pescatori, in un’area depressa. Io sono cresciuto in un paese, a due passi da Roma, e ho ritrovato tutte le dinamiche comuni alla provincia. Piene di forza, ma anche distruttive».

Ciaccole, baruffe: nell’opera si fa accenno agli haters?

«Al pettegolezzo che si genera nei gruppi. Ho visto la trasmissione di Fazio con il Papa che si è soffermato su quanto sia nocivo parlar male dell’altro all’interno di nuclei familiari, di lavoro, amicizia. Sembrava uno spaccato delle Baruffe».

Tra “Julius Caesar” e “Le baruffe”, l’assegnazione del Leone d’oro. È cambiato qualcosa?

«Primo commento: se mi danno un Leone vuol dire che sono invecchiato. Poi, no. Ho pensato che questo riconoscimento dovesse segnare un capitolo nuovo».

Una nuova opera?

«Un nuovo titolo c’è. Ma non è quello il capitolo. Piuttosto, reinventare il teatro. Costruendo spazi che avvicinino le nuove generazioni. Si dice che i giovani non vadano a teatro perché la musica classica è complicata, coinvolgendo il problema pedagogico. Ma questo scarica le responsabilità di una politica assente. I giovani non ci vanno a prescindere da cosa venga rappresentato. È il contesto sociale e antropologico che non gli appartiene».

Buttiamo giù i teatri?

«I teatri potrebbero essere centri plurisensoriali, non posti dove compri il catalogo e ti metti seduto. E quindi, guardiamo avanti. Rivediamo gli spazi e riconsideriamo la durata degli spettacoli, magari proponendoli a puntate. Come le serie tv». 

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