Franca Valeri si racconta a tre mesi dai 97 anni: «Ho vissuto in un mondo di cretinetti»

Franca Valeri
di Malcom Pagani
7 Minuti di Lettura
Domenica 16 Aprile 2017, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 19:07
Un qualsiasi risveglio di primavera, a un passo dai 97 anni: «Appena apro gli occhi mi dico “oddio, dove sono i miei amici?”, poi capisco dove mi trovo e partecipo di nuovo al gioco della vita”». Da qualche mese, Franca Valeri combatte nuovamente per la propria libertà come quando era ragazza e a Milano, le bombe cadevano dal cielo: «Sono inciampata in casa e precipitando su uno spigolo, mi sono rotta 6 costole. Ora mi sento bene, ma vivo con rabbia il dramma di non camminare: star fermi è una tale noia».

Tra fisioterapisti in camice azzurro, elettrodi e gatti che passeggiano sul tavolo, la grande randagia del teatro italiano guarda il mondo dalle sbarre della sua finestra: «Quelle vere e quelle metaforiche le ho sempre superate con l’ironia. Saper ridere è stato importante, mi ha permesso di vedere il bello anche nel brutto e ribaltare la realtà in un amen. Il mondo in cui sono diventata adulta era un luogo senza barriere. Uscivamo dalla guerra, ci riunivamo con una sorta di febbre addosso: “Ho un copione, ti va di leggerlo?” e d’incanto da due diventavamo tre, cinque, una compagnia. Oggi non succede più e per i giovani che non conoscono la vera amicizia e forse non la conosceranno mai deve essere terribile. Come abbia potuto prevalere l’estraneità verso gli altri non si sa, però è accaduto. La gente ormai più che a vivere è incline a sopravvivere, ma per salvarsi è necessario un grande sforzo di coraggio e fantasia. Ieri respiravi solidarietà, oggi nella consapevolezza che ad aiutarti non verrà nessuno, dipende solo da te». 

Chi la aiutava da ragazza?
«Molte persone hanno contato tanto. Se ci ripenso mi pare di averle qui davanti». 

Chi le viene in mente? 
«I miei genitori. Gente favolosa. Sono stati importantissimi».

Perché? 
«Mi hanno dato un’educazione, mi hanno fatto conoscere le cose, anche a mio padre - che pure era un industriale molto occupato - il tempo per stare con me non mancava». 

Giocavate insieme? 
«Per giocare, giocavamo poco. Parlavamo. Lui mi leggeva Salgari e mi raccontava del Corsaro Nero, io andavo verso altre oscurità. Divoravo favole tremende che in violazione del precetto promettevano punizioni atroci. In Pierino Porcospino di Hoffmann, disubbidendo agli ordini materni, ai bambini succedono cose terribili. Nella prima filastrocca, Paolinetta viene lasciata sola dalla mamma che si raccomanda di non accendere i fiammiferi, pena il rischio di mandare tutto a fuoco». 

E come finisce la filastrocca? 
«In maniera drammatica, come tutta la letteratura per bambini che non è triste, ma tragica. Paolinetta accende gli zolfanelli e arde con tende e mobilio. “Ahimè! la fiamma la bimba investe/Ardon le trecce, arde la veste/ Corre la misera di loco in loco/ Non c’è più scampo, è tutta in foco”». 

Lei ha buona memoria. 
«Sono giovane, cosa crede? Pensi a Dorfles. Ha appena compiuto 107 anni e ragiona ancora benissimo. L’ho conosciuto che ero una ragazzina e Gillo era già adulto». 

Da giovane aveva idee chiare? 
«Ho sempre saputo che volevo stare in teatro e che sarei finità lì, in pedana, a guardare le ombre tra le luci soffuse. Ero attratta dalle letture, dalla ripetizione dei testi, dalla recitazione. Ero sicura del mio avvenire». 

Il teatro è una vocazione? 
«Indubbiamente. Una volta che sei rapito dal meccanismo è difficile desiderare di fare un altro mestiere. Il teatro elimina dall’orizzonte qualsiasi altro orizzonte». 

Memorie degli inizi? 
«La bocciatura in Accademia. I miei compagni già ammessi al corso erano turbati, io invece ero così contenta. “Oddio che gioia - pensavo - non sarò costretta a essere prigioniera, a farmi insegnare il mestiere da questi signori”». 

Lei per l’autonomia ha avuto un debole. 
«In Emilia, con Vittorio Caprioli, mio marito, ricevetti una telefonata di Paolo Grassi che ci offriva un ingaggio. Vittorio titubava, accampava scuse, temporeggiava. Gli strappai la cornetta dalle mani: “Paolo, Vittorio si permette il lusso del dubbio, io no. Domani ti raggiungo e arrivo da sola». 

La sua esigenza di libertà era figlia di un Ventennio difficile? 
«Anche durante il conflitto che fu terribile, non ho mai smarrito l’ottimismo. Volevo che l’Italia perdesse la Guerra, ne ero sicura e così è andata». 

Di Mussolini cosa pensava? 
«Che sarebbe finito male. Lui e il suo amico tedesco con i baffi. L’avevo incontrato da giovane, il Duce, su una spiaggia della riviera romagnola. Remava in uno specchio d’acqua per una di quelle ridicole dimostrazioni di virilità a uso e consumo del “popolo” a cui ci aveva abituati. Andai a vederlo poi un’ultima volta a Piazzale Loreto. Davanti a tutto il male che aveva provocato, l’unica consolazione era sapere che se ne sarebbe andato nel peggiore dei modi». 

La calca, le mosche, lo scempio dei cadaveri nel caos della Liberazione. Quella giustizia sommaria non era barbarie? 
«La Guerra elimina la pietà. In Guerra vale solo la legge del taglione. Capisco che ad ascoltare certi discorsi si possa restare sconvolti, ma è disonesto affrontare la Storia retrospettivamente. Certe cose per giudicarle devi viverle e noi nella speranza di liberarci, durante il Fascismo, avevamo subìto molte nefandezze»

A 96 anni cosa può dirmi del carattere degli italiani?
«Che è un mistero. Come reagiranno inglesi o tedeschi, a spanne, puoi prevederlo. Con gli italiani no. C’è sempre un sapore di inattendibilità negli italiani». 

Il regista più importante nella sua formazione? 
«Strehler. Non sembrava che avrebbe ogni volta toccato il punto giusto e però, poi, magicamente lo toccava. Paradossalmente gli attori dubitavano di lui: da un lato riconoscevano la sua capacità di mettere in scena spettacoli bellissimi, dall’altro non ci credevano fino in fondo. E sì che Giorgio era il migliore». 

Migliore di Visconti? 
«Come regista sì. Visconti era un fenomeno. Dispiegava il suo mondo meraviglioso, sempre uguale e immutabile, ma Strehler riproduceva la realtà con una vivezza di dettagli francamente stupefacente e i suoi spettacoli avevano qualcosa di più». 

Visconti era perfido? 
«Con me era squisito, ma in assoluto era un uomo difficile e perfido, con chi non considerava al suo livello intellettuale, sapeva essere. Renato Salvatori vide due borse con le iniziali Louis Vuitton a casa sua e si lanciò: “Ahò, Luchì, te sei comprato le borse personalizzate?”. Visconti lo raccontò a tutta Roma, con toni di scherno, niente affatto indulgenti. Mentre preparava Ballo in maschera poi, lo vidi tormentare un bambino siciliano solo perché si divertiva ad ascoltarlo storpiare la parola “rosa”. Quello non riusciva a pronunciarla bene, arrotava la erre e Luchino ne godeva fino alle lacrime. Gliela fece ripetere 15 volte, la creatura era atterrita, totalmente ignara di essere lo zimbello momentaneo del regista di grido». 

Pasolini era l’antiVisconti? 
«Non direi, a meno di non volerli affiancare perché entrambi vestivano la loro identità sessuale di grazia e verità o perché erano tormentati. Pier Paolo però, così a disagio in un certo microcosmo, a me faceva simpatia». 

L’omosessualità era un tema dibattuto? 
«Nessuno dei due aveva il problema di celare la propria inclinazione e infatti non la celavano. Vedevamo andare a venire i loro eletti a seconda della stagioni. Una sera, uno dei favoriti di Luchino, Helmut Berger, me lo ritrovai a dormire in casa. Aveva un modo di fare preoccupante, una profonda infelicità dipinta sul volto e un po’, a dire il vero, mi inquietai. È strano perché da uomini e donne con personalità sono stata sempre attratta». 

E da chi altri? 
«Dagli anomali, dagli spiritosi, dai cretinetti. Era pieno di deliziosi cretinetti il mio piccolo mondo antico». 

Facciamo qualche nome? 
«Ho adorato De Sica, come attore, come regista e come persona. Non posso negare che con lui si ridesse sempre di qualcun altro, ma insomma non si può sempre essere ieratici. Cattiverie e pettegolezzi più o meno innocenti fanno parte della quotidianità». 

Altri modelli? 
«Mi piaceva Tognazzi. Bravissimo, simpatico, misterioso. Lavorò in Splendori e miserie di Madame Royal, uno dei pochi e bellissimi film di Vittorio Caprioli. Lì Ugo fu sublime». 

C’è una ragione per la sottovalutazione critica del lavoro di Caprioli? 
«La ragione era Vittorio stesso. Non si imponeva, non esercitava nessuna forma di comando, la sola ipotesi di guidare la troupe con lo scudiscio lo atterriva. Alla gestione del potere anteponeva umorismo e intelligenza». 

Vi sposaste in Liguria. 
«Al confine con la Francia. Vittorio si era dimenticato di comprare l’anello. Entrò in chiesa e ne uscì di corsa per acquistare il primo che capitava. Mia madre era tra il perplesso e l’indignato: “Ma il matrimonio sarà valido?”». 

In altre vesti, un matrimonio di fatto lei lo ebbe con Sordi. 
«Viveva per fare l’attore, ma va anche detto che non aveva nessuna difficoltà a farlo bene. Il Sordi del grande schermo somigliava da vicino al vero Alberto». 

Tra Moretti che diceva “Ve lo meritate Alberto Sordi” e Mario Monicelli che ne difendeva tratto fondante e interpretazioni, da che parte sarebbe stata? 
«Anche se immagino che la domanda di Moretti se la siano fatta in molti, senz’altro dalla parte di Monicelli. Un antipatico così trincerato nella sua supposta antipatia, dall’apparirmi fin dal primo istante adorabile. I registi, come gli attori, appartengono a una genìa curiosa, a un recinto molto vario». 

E dentro al recinto che varietà si incontrano? 
«Uomini molto apprezzabili, gente meno apprezzabile, persone che come Steno - al quale mi legava la stessa passione che mi affratellava a Totò, quella per i cani - pensavano di essere registi mediocri senza esserlo affatto perché avevano la leggerezza di non prendersi sul serio. E poi, professionisti che a forza di sentirsi trattare come divinità, un po’ divini, alla fine, finivano per considerarsi». 

Un nome? 
«Sicuramente Fellini. Non era solo colpa sua, ma a forza di sentirsi chiamare “genio” aveva finito per sentirsi tale». 

Dice davvero? 
«Mi dispiace dirlo, ma penso che Fellini sia stato sopravvalutato. Aveva, è vero, qualità enormi prima tra tutte la curiosità. Ma quando andammo a vedere La strada con De Feo ed Ercole Patti ci annoiammo mortalmente. Per tacere di quello che si diceva di Giulietta Masina. Nora Ricci l’aveva vista vezzeggiarsi da ragazzina incinta a 60 anni e si era scatenata nei lazzi. Io mi chiedevo solamente: “Perché Federico non le ha impedito di partecipare?”. 

Pensa mai alla morte? 
«Provo a evitare, ma se proprio ci devo pensare mi dico sempre: siete certi che se ne debba parlare? Come farete senza di me?»

E cosa si risponde? 
«Che è troppo presto per perdere tempo con la cosiddetta morte. E io di tempo come saprà non ne ho poi molto». 
© RIPRODUZIONE RISERVATA