Daniele Pecci al Teatro Qurino: «Con Pirandello è in gioco la nostra identità»

Daniele Pecci, attore, romano, 48 anni. Da martedì in scena al teatro Quirino con Pirandello
di Simona Antonucci
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Sabato 3 Novembre 2018, 21:16
«Abbiamo bisogno di codici per accedere ai conti bancari con i nostri soldi. Di password per usare i nostri pc. E senza smartphone ci sentiamo persi. La certificazione della nostra identità dai tempi di Pirandello a oggi, si è complicata ulteriormente...».

Daniele Pecci, attore, 48 anni, due figli, romano che dalle colline del Trionfale è sceso nei vicoli trasteverini, scherza sull’attualità di “Il Fu Mattia Pascal” che da martedì 6 novembre porta sul palco del teatro Quirino (repliche fino al 18 novembre, regia di Guglielmo Ferro).

Sarà lui Mattia Pascal («Un ragazzone, ancora giovane, un po’ goffo e scoordinato», spiega), protagonista dello spettacolo tratto dal romanzo di Pirandello, di cui firma anche l’adattamento. «Un doppio debutto», spiega, «in scena e alla scrittura».

Una carriera che comincia a teatro, poi un lungo periodo tra tv (“Il bello delle donne”, “Orgoglio”) e cinema (“Fortapàsc” di Marco Risi, “Mine vaganti” di Özpetek) e ora uno dopo l’altro “Amleto”, “Medea”, “Enrico V”: basta schermi?
«Ho appena lavorato nella mega-produzione dei Medici, ho fatto televisione per 15 anni, ma sento che è un discorso che si sta esaurendo. La fiction, sempre di più, strizza l’occhio all’intrattenimento. E io, ora, ho di nuovo bisogno di confrontarmi con altro. Il lavoro nelle serie è stato comunque utilissimo, anche per costruirmi il serbatoio di pubblico che mi segue a teatro. La tv mi ha creato un nome “vendibile” che mi consente di fare “Amleto” o Pirandello. Fu Patroni Griffi a consigliarmi questo percorso».

Una produzione come quella dei “Medici” spalanca le porte di un mercato straniero?
«Mi era già capitato, con “San Pietro” e “Giovanni Paolo II” di trovarmi in un ambiente internazionale. Esperienze fondamentali perché ti confronti con strutture e professionalità solide. E senti che il tuo lavoro ha un senso. Ma il linea di massima per un attore italiano lavorare fuori è piuttosto complicato».

Alle attrici si domanda sempre: la bellezza aiuta? Lei, attore, come risponde?
«Prima di fare tv ero uno come tanti. Poi, sono diventato un bel ragazzo. La bellezza certo che conta. E io ci tengo. Nel senso che mi fa piacere poter essere un Amleto credibile».

Il teatro classico è la sua passione.
«Sono attratto dai testi primari. Quelli da cui nascono le variazioni sul tema. Una ricerca sugli archetipi della scrittura, riproposti dai testi cardine. In un momento di contaminazione, mi piace confrontarmi con espressioni diverse dal parlato quotidiano».

E la drammaturgia contemporanea?
«In Italia siamo indietro. Quei pochi autori che ce la fanno sono eroi. La politica non prende in considerazione il teatro. Non investe in cultura».

A proposito di nuova drammaturgia, Mattia Torre ha scritto un pezzo sulla famiglia che è diventato virale. Lei che ha due figli che cosa ne pensa?
«Torre è un grande. Sui figli, posso aggiungere, che mi suscitano una tenerezza che non so descrivere».

Progetti.
«Shakespeare. Perché è uno dei motivi per cui faccio questo lavoro. E cinema. Vorrei farne di più».

Teatro Quirino, via delle Vergini 7.
Dal 6 al 16 novembre 
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