I Bros di Romeo Castellucci al Teatro Argentina «Vestiti come i poliziotti di Chaplin, telecomandati con auricolare, trasformano le certezze in gag»

In scena dal 9 al 12 marzo al teatro Argentina di Roma Bros del regista Leone d'oro con interpreti non attori, reclutati in strada: Non si tratta di satira, né di un'accusa alle forze dell'ordine, ma un lavoro antropologico sull'obbedienza. Poi farò Wagner a Salisburgo

Bros di Romeo Castellucci al Teatro Argentina di Roma, dal 9 al 12 marzo
di Simona Antonucci
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Mercoledì 8 Marzo 2023, 20:51

Telecomandati, e vestiti come i poliziotti dei film di Charlie Chaplin, obbediscono senza sapere perché. Gli interpreti salgono sul palco e non sanno che cosa dovranno fare: le informazioni arriveranno in diretta, sotto i riflettori. Gesti liturgici, certezze che si trasformano in gag, in una strana atmosfera che oscilla tra comicità e terrore. Sono i “Bros” del regista Romeo Castellucci (una ventina di “non attori” reclutati per strada, che sul palco ricevono indicazioni dagli auricolari) che dal 9 al 12 marzo occupano il palco del Teatro Argentina. «Non si tratta di una satira, né tantomeno di un’accusa alle forze dell’ordine, lo definirei un lavoro antropologico sul fenomeno dell’obbedienza. La polizia diventa una metafora per parlare di tutti noi», spiega l’artista di fama mondiale, 62 anni, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia e Chevalier des Arts et des Lettres della Repubblica francese. 

Che succede in scena?

«Gli ordini arrivano e non c’è tempo per pensare, per prendere posizione, per fare una scelta. In questo tempo strozzato che riduce tutto a un presente assoluto, la comicità dei loro gesti si mescola all’esperienza di alienazione».

Il tema centrale?

«L’obbedienza che riguarda tutti noi. Il modo in cui chiediamo alla nostra libertà di interagire con dei comandi che non capiamo. E non sappiamo neanche da dove provengano. Come gli attori in scena che diventano attori grazie agli auricolari».

Uno spettacolo “muto”?

«È un teatro dove non ci sono parole, ma immagini, suoni e atmosfere. Solo in apertura, c’è un prologo pronunciato da un vecchio signore che ha un aspetto del profeta, anche perché pronuncia parole del profeta Geremia, quelle con cui mette in guardia Israele dalla schiavitù. Ma non si capiranno neanche quelle».

Come mai?

«Perché sono in una lingua straniera. In scena c’è un grande attore rumeno e gli ho chiesto di parlare nella sua lingua, che quasi nessuno conosce, per creare una distanza.

Del resto la voce del profeta nessuno vuole ascoltarla perché dice verità che non vogliamo intendere».

Azioni, gesti quotidiani: che cosa fanno queste persone telecomandate?

«Movimenti che traggono ispirazione da un certo immaginario legato alla storia del cinema, ai poliziotti di Buster Keaton o Charlie Chaplin».

Per suscitare quali sensazioni?

«Sono immagini che appartengono a tutti. Il mio lavoro non è una predica. Gli spettatori sono adulti e delle sensazioni ne faranno quello che vogliono».

Perché, come abiti di scena, ha scelto le divise da poliziotto?

«Un modo di cristallizzare un’idea attraverso una figura straordinaria che richiama altre figure totemiche primitive, il corpo (di polizia), la fratellanza, il gruppo».

Un gruppo solo di uomini?

«Nei film di Chaplin non esistevano poliziotte. Il gruppo è fortemente sessuato. E ha un significato recondito, parlando proprio di clan».

Gli interpreti, prima del debutto, firmano un indice comportamentale. È successo che qualcuno in scena abbia avuto difficoltà ?

«È incredibile. Ma non è mai successo. Finora. Le persone vengono selezionate dai vari teatri dove andiamo in scena. Non si tratta neppure di un casting».

Progetti futuri?

«Due opere importanti. Sto lavorando al Tannhäuser di Wagner, con Jonas Kaufmann ed Elina Garanca, che presenterò al Festival di Pasqua a Salisburgo: inizia il primo aprile, tra pochi giorni. E poi a La Monnaie a Bruxelles la tetralogia di Wagner, il Ring. Mentre a Parigi, con Isabelle Huppert protagonista, metto in scena Bérénice di Racine. E a Eleusi, in Grecia, un’opera site-specific».

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