Al Teatro Argentina l'epopea teatrale sull'Afghanistan basata sui racconti di dieci scrittori inglesi

Al Teatro Argentina l'epopea teatrale sull'Afghanistan basata sui racconti di dieci scrittori inglesi
di Andrea Velardi
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Mercoledì 17 Ottobre 2018, 10:37 - Ultimo aggiornamento: 12:22
Dal 17 al 21 ottobre al Teatro Argentina va in scena la saga-evento Afghanistan, paese martoriato da una lunghissima stagione di conflitti. Una epopea teatrale che si snoda dal 1842 ai giorni nostri diretta da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani. Un affresco straordinario incentrato particolarmente sul rapporto turbolento, non sempre rispettoso, tra Occidente e Afghanistan, incrinato da egemonie coloniali di estrazioni opposte come quella britannica prima e quella sovietica dopo fino alla dittatura dei Talebani.

Il grande polittico mette in scena dieci racconti commissionati dal Tricycle Theatre di Londra , a interessanti autori della scena anglosassone, come a risarcire il paese dall’imperialismo britannico che lo spogliò della sua identità più antica. Nell’ordine: Lee Blessing, David Greig, Ron Hutchinson, Stephen Jeffreys, Joy Wilkinson, Richard Bean, Ben Ockrent, Simon Stephens, Colin Teevan, Naomi Wallace (tradotti da Lucio De Capitani).

Una Produzione Teatro dell’Elfo, Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con Napoli Teatro Festival, con il sostegno di Fondazione Cariplo con dieci attori: Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana. Un cast che dilata questo «place for people» tra storie notturne, sospese, in cui si materializzano i personaggi di due secoli di storia in una scena spoglia che prende vita grazie alle proiezioni video di Francesco Frongia, dove si succedono semplici soldati, nobili, diplomatici senza scrupoli, spie, emiri, giovani re, mujahidin, reduci, vittime della guerra alternando eroismo temerario e spavento, spalvaderia smargiassa e sprezzante sarcasmo, crudeltà spietata e altruismo.
 
La saga è divisa in due parti, «Il grande gioco», con cinque episodi ambientati fra il 1842 e il 1996, (in scena 17 e 19 ottobre) e «Enduring Freedom», con i restanti cinque, fra il 1996 e i giorni nostri, (in scena 18 e 20 ottobre), che confluiranno nella maratona finale di circa 6 ore di domenica 21 ottobre.  De Capitani ricorda che i racconti dei dieci autori si dividono nei due grandi quadri, cinque per ogni parte. «Il grande gioco» comprende: «Trombe alle porte di jalalabad» di Stephen Jeffreys, «La linea di Durand» di Ron Hutchinson, «Questo è il momento» di Joy Wilkinson, «Legna per il fuoco« di Lee Blessing, «Minigonne di Kabul» di David Greig. Per «Enduring Freedom» abbiamo: «Il leone di Kabul» di Colin Teevan, «Miele» di Ben Ockert, «Dalla parte degli angeli» di Richard Bean, «Volta stellata» di Simon Stephens, «Come se quel freddo» di Naomi Wallace.  Ogni autore cerca di aderire all’ esperimento drammaturgico con personale sensibilità, a volte in modo poetico, altre volte attingendo ai linguaggi dei mass media, costruendo delle miniserie con una tecnica più marcatamente televisiva. Del resto alcuni di loro sono autori televisivi, come Simon Stephens, che De Capitani ha incontrato a Londra perché, in concomitanza con «Afghanistan» è riuscito a mettere in scena, l’adattamento teatrale fatto da Stephens, de «Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte» di Mark Haddon, che andrà in scena al Teatro Elfo Puccini di Milano dal 5 dicembre al 13 gennaio.
 
De Capitani definisce «Afghanistan» come «un viaggio in assenza, quando usciamo abbiamo la sensazione che un grosso pezzo del nostro cervello sia trasmigrato in quei luoghi  dove noi siamo stati già dai tempi di Alessandro il grande portandovi le nostre armate. Ma tutti gli eserciti hanno fatto i conti con un popolo orgoglioso della propria terra, che mi ricorda un po’ I baschi che attaccano Carlo Magno che attraversa le tortuose gole pirenaiche dopo la battaglia di Roncisvalle. Si appassionano alla grande maratona quelli che prima preferivano vedere lo spettacolo diviso».
I singoli episodi raccontano alcuni dei personaggi fondamentali di questo paese. «Questo è il momento» di Joy Wilkinson, racconta Amanullah Khan, il grande re che ha democratizzato il paese islamico dal 1919 al 1929, mentre è in fuga nella notte con la regina Soraya e Mahamud Tarzi, consigliere del re, accompagnato da un autista. La macchina è in panne e cresce il timore di tradimenti e imboscate, facendo emergere le tensioni della coppia, le contraddizioni e gli ideali infranti dei due uomini politici che avevano tentato di riformare il loro paese.  

Il regista si sofferma sulla relatività della nozione di democrazia per l’ Afghanistan, «un paese multietnico, con una straordinaria  quantità di minoranze spiegato molto bene da questi racconti, ma molto poco dalla stampa. Un paese che non è solo vittima dell’Occidente, ma anche dei suoi conflitti interni e dell’egemonia della maggioranza pashtun. Anche in Occidente  del resto la democrazia è maturata lentamente a partire dal primo regicidio inglese, con molti avanzamenti e arretramenti storici». In Afghanistan c’è il problema degli hazāra, la minoranza di cui parla «Il Cacciatore di aquiloni» di Hosseini, raccontando la presa di coscienza della diseguaglianza e dell’emarginazione degli altri da parte piccolo pashtun Amir, che vede il suo amico hazaro Hassan violentato dai compagni di scuola; c’è il problema della minoranza sciita massacrata da vari emiri». Prima dell’episodio su Amanullah, c’è la scena epocale de «La linea di Durand» di Ron Hutchinson, in cui gli inglesi nel 1893 cercano di tracciare un confine tra l’Afghanistan e l’India Britannica. Sir Henry M. Durand, con la sua fiducia nel progressi dice che  «guardare una mappa è dare forma al mondo...». L’emiro Abdhur Raham diffida di quella sicumera imperialistica e idealistica: «è una specie di magia quella in cui credete, con queste mappe. Vi supplico, non cercate di forzare il mondo in una forma che non può prendere». Ma gli inglesi tracciano una linea verticale come quelle orizzontali con cui sono stati creati l’Iran, l’Iraq, la Giordania, la Siria, come se «si decidesse che l’Appennino divide l’Italia in due paesi diversi, e creano quella vasta area dove gli afghani ancora passano coi pascoli e coi mitra, che è l’area di Bora Bora, dove è scappato Bin Landen. Alla fine de Il Grande Gioco ecco «Minigonne di Kabul» in cui David Greig espone il suo discorso sul potere mettendo in scena l’acerrimo, machiavellico e utopico Najibullah, ultimo presidente comunista, «un incrocio tra Danton e Robespierre capace di sopravvivere 4 anni dopo Ia caduta dell’Unione Sovietica, che non abbandona il suo rifugio nel palazzo dell’ONU mentre Kabul è assediata dai Talebani. E rilascia un’ultima intervista, «forse solo immaginata, per rievocare il suo sogno di modernizzare il paese».  
 
«Enduring Freedom» racconta i conflitti con i talebani al potere, il dialogo difficile con i mullah, la teoria, in parte anche giusta, ma molto reazionaria secondo cui «gli individui hanno solo diritti in quanto membri di una comunità. Un individuo è una foglia in balia del vento. La comunità è un albero che resiste alla tempesta»; i problemi dell’intervento umanitario dell’ONU. Il dramma raccontato in «Volta stellata» di Simon Stephens del sergente Jay Watkins e del soldato Kendall che si interrogano sul loro essere soldati in terra straniera e soprattutto del sergente Jay Watkins che, tornato in Inghilterra affronta il senso di sradicamento e le contraddizioni del suo sentirsi “eroe”.  Splendido, intenso e commovente il finale di «Come se quel freddo» di Naomi Wallace in cui due sorelle afghane di 13 e 15 anni e un soldato americano in uno stato tra il confusionale e l’onirico, si incontrano in scena semi-vuota, una terra di nessuno, che per lui è la sua casa a New York, per loro è il deserto afgano. In realtà la Wallace li ha fatti incontrare in un paesaggio trasognato  e sospeso alla Samuel Beckett, alle soglie della morte che  è il loro destino, perchè altrimenti nella vita non si sarebbero mai incontrati. Raccontando lo sguardo spettrale della morte e la disperazione, controcanto tremendo della speranza che riluce negli occhi di chi è partito dalla valle del Panjshir per ritrovare la libertà dell’Occidente nella normalità di una metropolitana.
 
Soraya Malek di Afghanistan, nipote del grande re riformatore Amanullah Khan, seguirà tutta la maratona con grande interesse ed emozione: « è molto importante sapere cosa è stata la storia del mio popolo, anche io sono stata vittima del Grande Gioco dal momento che la mia famiglia è stata esiliata». E non manca di sottolineare che «nel racconto di Joy Wilkinson i miei augusti nonni, il re Amanullah e la regina Soraya litigano, ma al contrario loro hanno espresso nel modo più straordinario il grande eroismo del popolo afgano». Confermando il vero grande spirito di questa straordinaria epopea drammaturgica.
 
 
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