Al Massimo di Palermo Turandot è la cyber-eroina di una megalopoli del 2070

Una scena della Turandot in scena al Teatro Massimo di Palermo con la regia di Fabio Cherstich
di Simona Antonucci
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Domenica 13 Gennaio 2019, 22:55 - Ultimo aggiornamento: 14 Gennaio, 20:45

Pechino è una megalopoli globalizzata dove gli uomini convivono con macchine e androidi. Turandot è a capo di questo nuovo e gigantesco impero ed esercita uno spietato cyber-matriarcato. Abita in un palazzo “drago volante”, rosso fuoco, insieme con un esercito androgino: robot addetti alla tortura dei principi spasimanti.

Violenta e ferita, fredda e sensuale, la principessa manifesta tutti i suoi alter ego, le mille sfumature di una personalità enigmatica, trasformandosi continuamente in figure ibride e metamorfiche. Ping, Pang e Pong sono personaggi kafkiani, burocrati innamorati di un passato da cartolina che ricorrono a sostanze “alteranti” per ritrovare una realtà che non esiste più. Calaf, con Timur e Liù sono, invece, anime in fuga: hanno il ruolo dei rifugiati, coloro che in una società organizzatissima, rappresentano l’elemento estraneo e perturbante. 

Il sipario del Massimo di Palermo si apre su un nuovo mondo, visionario e avveniristico, con un’eroina pucciniana che dal 1926 fa un viaggio nel tempo fino al 2070, passando per gli studi del collettivo di artisti russi AES+F, che le hanno ritoccato l’identità, e per il fantasioso laboratorio creativo di Fabio Cherstich, il “padrino” dei progetti OperaCamion e OperaCity, regista dell’atteso allestimento che inaugura il 19 gennaio la stagione del lirico palermitano.

 


«È la mia prima regia lirica dentro un vero e proprio teatro», scherza Cherstich, «i lavori precedenti con il Costanzi, assieme all’artista Toccafondo, sono andati in scena dentro un tir nelle periferie romane, dove tornerò la prossima estate con Tosca. E con il Massimo ho firmato un Elisir nella fattoria di Danisinni, a Palermo, tra edifici abbandonati, orti e stalle. Ora, che mi hanno messo a disposizione un palco tradizionale, pur mantenendo l’essenza dei personaggi e della storia, l’ho smontato e trasformato in un mondo astratto di pura fantasia. Una cosa tranquilla, io mai. Ma hanno creduto in me e sarà un debutto rock and roll».

Sul podio (repliche fino al 27) a dirigere orchestra e coro del Massimo, il maestro Gabriele Ferro. In scena, tra immagini stupefacenti, Tatiana Melnychenko e Astrik Khanamiryan nel ruolo di Turandot; Brian Jagde e Carlo Ventre daranno voce a Calaf; Simon Orfila e Yuri Vorobiev interpreteranno Timur; per Calaf canteranno Brian Jagde e Carlo Ventre; per Liù Valeria Sepe e Alexandra Grigoras; per Ping, Pang e Pong Vincenzo Taormina (e Federico Longhi), Francesco Marsiglia e Manuel Pierattelli; e Luciano Roberti sarà il Mandarino.

Nutritissima la squadra che ha dato vita a questo nuovo, e coraggioso, spettacolo, in coproduzione con il Comunale di Bologna dove debutterà a maggio. «Ho sviluppato la mia lettura», spiega il regista Cherstich, «insieme con i quattro artisti del gruppo AES+F che l’hanno tradotta in immagini, video e costumi». Al risultato si assiste su quattro schermi giganti (12 metri per 8 il più grande e 5 per 3 il più piccolo) che «imprigionano», aggiunge, «la scena e i cantanti».

Cinque teste per un’operazione “non convenzionale” nata per soddisfare un’esigenza comune: evitare formalismi, patine di antichità, drammi in costume e restituire all’opera la forza che rischierebbe di diluirsi nel tempo. «Un capolavoro lirico non è un quadro, una Gioconda da portare in giro nei musei», aggiunge Cherstich, «va creato un ponte per riavvicinarci alla profondità della storia. Scavalcato il divario temporale.

E, il mondo lontano, quello che poteva essere la Cina nell’epoca di Puccini, oggi, secondo me è una proiezione della società globale».
In questa favola del terzo millennio, la forza che ancora risuona è quella dei sentimenti. «Agli enigmi lasciati in eredità da Puccini che morì prima di terminare l’opera si sono aggiunti i nostri. Ma un punto resta centrale: il rapporto tra amore e morte intorno al quale ruota il legame tra i due protagonisti. Il sacrificio di Liù porta all’amore utopico del finale. E in una sorta di Eden, riusciranno a tornare persone normali. Il sentimento tra Calaf e Turandot sarà il balsamo che guarirà società e masse». 

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