​Springsteen, l’infinita avventura on the road: esce il 14 giugno il nuovo album

Springsteen, l’infinita avventura on the road: esce il 14 giugno il nuovo album
di Simona Orlando
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Mercoledì 29 Maggio 2019, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 27 Febbraio, 14:01

Infilate gli stivali più consumati, chiudete il cofano della Chevrolet e dallo specchietto retrovisore ammirate il susseguirsi di canyon e deserti, pronti a caricare a bordo i personaggi del diciannovesimo disco del Boss, Western Stars, in uscita il 14 giugno, a cinque anni dall’ultimo lavoro in studio. Si torna a viaggiare per gli immensi spazi americani con tredici brani di un Bruce Springsteen ispirato, solista, dice lui, in realtà più solitario, nell’indagine dell’animo umano. Riprende la rotta del suo intimo show a Broadway e della sua biografia, gran parte dei nuovi brani risalgono al 2014, fotografano un periodo di ragioneria esistenziale, in cui ha fatto i conti con sé stesso, presentandoli al pubblico senza truccarli.

Sul palco di New York non c’erano musicisti, qui i collaboratori sono tanti, dal co-produttore Ron Aniello e Patti Scialfa ai cori ai compari della E Street Band David Sancious (sin dai tempi di Asbury Park) Charlie Giordano e Soozie Tyrell. Nonostante la compagnia, è un cammino isolato, su due gambe, sorretto da arrangiamenti orchestrali cinematici. Ogni verso un’inquadratura, come definì il repertorio springsteeniano Ennio Morricone, perciò l’ascolto stampa al Forum Village di Roma fondato dal Maestro era il luogo del delitto perfetto. Un solo ascolto. Poco per assimilare un disco che andrebbe sorseggiato come whiskey d’annata ma abbastanza per capire la traiettoria del Boss, personale in modo del tutto diverso e per questo sicuramente divisivo. Ai duri e puri forse non piacerà la svolta melodica, la voce piena (su Sundown si dà all’acuto), l’assenza del rock energico, ma per quello ci sarà tempo, nel prossimo lavoro con la E Street Band e tour che toccherà Roma nel 2020. 

Qui Bruce ha preso ispirazione dai dischi pop della California del Sud tra fine Anni ’60 e inizio ’70. C’è un sapore vintage ma lo sguardo tutto contemporaneo di un uomo che alla soglia dei settant’anni ancora affronta i suoi mostri e setaccia quel che resta del sogno americano. In Hello Sunshine, country malinconico tra le corde hawaiane della chitarra pedal steel, ricorda Everybody’s Talkin’ di Fred Neil (1966 colonna sonora di Un uomo da marciapiede) e Gentle On My Mind di Glen Campbell.

Nel video inghiotte autostrade desolate su una Chevrolet El Camino, un po’ berlina un po’ pick up, per accontentare i pigri cowboy da drugstore. Bruce sembra parlare della depressione con cui ha spesso combattuto: «Stufo di cuore spezzato e dolore, ho avuto un debole per la pioggia e i cieli grigi. Ciao raggio di sole, non rimarrai?».

Un timore di pensieri neri ripetuto in Chasin’ Wild Horses (chitarra acustica e violoncello), dove il protagonista si sfinisce di lavoro per non riflettere, e in Tucson Train (forse il prossimo singolo): «Ah, se potessi spegnere il cervello». There Goes My Miracle è la ballata orchestrale dove a sorprendere è il suo canto spudorato, a cuore aperto, senza ruvidezze. Viene in mente Roy Orbinson, che già in Thunder Road menzionava come il cantore dei cuori solitari. Qualcuno ipotizza che il sogno svanito sotto il cielo dell’Alabama del testo sia un riferimento alla fine dell’era Obama, ma non c’è traccia diretta di politica nel disco. Vige l’immaginario del west, il nulla che porta a locali da due soldi, ancora «le vie intasate da eroi distrutti alla guida della loro ultima possibilità».

Springsteen continua a imbarcarli, tipo l’autostoppista di Hitch Hikin’, che apre il disco ed è subito banjo e voce in faccia a chi ascolta, narrando la storia di un senza mappa che avanza a passaggi, una “rolling stone”, pietra che rotola da una macchina a un camion. Si incontrano il viandante di The Wayfarer e le stelle cadute del cinema hollywoodiano di Western Stars, che si confortano di gin e pillole blu.
Il pezzo parte con la frase «I wake up this morning» come Stones e ogni blues che si rispetti. Le tappe lungo la via sono Somewhere North of Nashville e Sleepy Joe’s Café, la più ritmata, quasi un honky tonk twist con incursione di trombe. I testi sono più contemplativi, panoramici, impressionisti, ma la narrazione da storyteller torna in Drive Fast, lui uno stuntman acciaccato, lei un’attrice di serie b, persi nel deserto della Bassa California, e soprattutto in The Moonlight Motel, la più struggente, finale amaro a sorsi di Jack Daniel’s per salutare l’amore finito.

Ma anche quando il Boss ha percorso ogni isolato della perdita, la distanza fra il sognato e il vissuto, non è mai vinto. La sua voce? Mai sentita così esposta, spalancata sui ritornelli, su orchestrazioni trionfali da film. Un rischio che reclama libertà, non a caso in copertina campeggia un purosangue senza sella.
 

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