Che affare lo streaming, le star del rock si quotano in Borsa

Che affare lo streaming, le star del rock si quotano in Borsa
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Sabato 30 Settembre 2017, 08:10
Rock e il suo contrario. Il ribellismo, la protesta e la montagna di soldi che arrivano nelle casse di quegli eroi che sventolano le bandiere dell'antagonismo. L'arte e il mercato. Impossibile far finta di nulla. I primi a pensarci, perché furono sommersi da guadagni fuori misura, furono i Beatles, saggi amministratori delle loro fortune. Lennon e McCartney quotarono le loro canzoni (anche se, si racconta, che fossero contrari: la ripartizione comunque fu 15 per cento a testa per loro e l'1,6 a Ringo e George) con la Northern songs ldt, di cui poi persero il controllo, che finì a Michael Jackson. Era il 1965, cinquantadue anni fa, quando i Beatles finirono in borsa: più guadagnavano le loro canzoni e più il loro titolo saliva. Elementare. Ma non sono stati i soli, anche se c'è stato un lungo periodo di vuoto che corrisponde alla lunga stagione di crisi della discografia e a quella meno lunga ma drammatica della borsa. L'ultima notizia che arriva riguarda Eminem, uno che nelle sue canzoni fa la pelle al sistema. Ma anche Eminem guadagna molto, tanto per capire in carriera ha venduto 172 milioni di dischi e ora ne sta preparando uno nuovo. Si potrebbe rievocare una frase di Fabrizio De Andrè: «Chi canta, spesso e volentieri lo fa per l'Amazzonia e per la pecunia».
LA STARTUP
Fatto sta che una startup, la Royalty Flow, dietro cui ci sarebbero Jeff e Mark Bass, i due fratelli produttori che hanno lanciato il rapper americano nel 1997, ha deciso di investire acquistando per ora il 25 per cento del catalogo del cantante edito prima del 2013 (si tratta di dischi come The Slim Shady LP, The Marshall Mathers LP e The Eminem Show nei quali hanno lavorato direttamente) offrendo al pubblico 3,3 milioni di azioni al valore di 15 dollari l'una. Si calcola che l'offerta pubblica iniziale possa garantire 18,7 milioni ai Bass Brothers, come sono conosciuti nel mondo dell'entertainment americano. «L'industria musicale si trova alla vigilia di un boom e i profitti discografici cresceranno sostanzialmente» è il loro ottimistico credo, supportato da numeri confortanti: le royalties prodotte dalla porzione di catalogo che hanno acquistato tra il 2015 e il 2016 sono cresciute del 43 per cento e lo streaming del 46 per cento nell'anno scorso. L'ottimismo è l'effetto diretto soprattutto del boom crescente dello streaming (ed ecco perché la scelta di puntare sul catalogo) supportato dal fatto che anche il colosso del settore Spotify (attualmente valutato 13 miliardi di dollari) entro l'anno si farà quotare a Wall Street (e sarà seguito dall'altra piattaforma Deezer).
Sono passati quasi vent'anni da quando David Bowie (da sempre un precursore, anche nella gestione del proprio patrimonio economico) nel 98, in pieno boom del mercato azionario, lanciò i Bowie bonds su 300 delle sue canzoni. Ci guadagnò un mucchio di soldi, quasi 60 milioni. L'operazione creò ovviamente un clima di euforia, a seguire la strada ci provò Rod Stewart con l'investimento della Banca Nomura, alla cosa si interessarono altri giganti del rock dai Genesis, ai Rolling Stones, agli Who, agli Eagles, a Billy Joel. Ma poi arrivò il 2001, ci fu la crisi delle borse, mentre quella della musica, colpita anche dalla pirateria di massa, si acuiva. I Bowie bond (ma il Duca bianco aveva già raccolto i suoi frutti) vennero declassati a spazzatura. Il banchiere che aveva guidato quell'operazione, David Pullman, ci provò ancora con James Brown, Marvin Gay e gli Isley brothers, ma anche con singole canzoni. Nel 2011 Goldman Sachs penso di piazzare bond basati sui titoli dei pezzi di Bob Dylan e Neil Diamond, ma poi mise da parte la tentazione. Ora il sereno è tornato a splendere, grazie allo streaming. La scelta della Royalty flows di andare in borsa con il repertorio di Eminem sarà seguito da altri artisti.
Marco Molendini
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