Kurt Cobain, quel colpo di fucile che sconvolse il mondo

Kurt Cobain, leader dei Nirvana
di Andrea Andrei
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Sabato 5 Aprile 2014, 18:18 - Ultimo aggiornamento: 8 Aprile, 19:30

Che rumore fa la morte? Vent'anni fa, il pomeriggio del 5 aprile del 1994, la morte ebbe il rumore di uno sparo. Un colpo tremendo di fucile, che però non spezzò la monotonia e il silenzio di quello che accadeva intorno, in un tranquillo quartiere di Seattle, città dello stato di Washington famosa per la sua industria aerospaziale ma circondata da boschi.

Quello sparo non fu udito da nessuno, e solo tre giorni dopo un elettricista si accorse che nella stanza sopra il garage di una villa in puro stile borghese giaceva il corpo di un giovane di 27 anni, che di borghese non aveva nulla, se non il conto in banca.

Eppure quel colpo di fucile non smise più di riecheggiare, lasciando un segno profondo non solo nello show business, ma nella coscienza di tutti.

Il ragazzo morto si chiamava Kurt Donald Cobain, e di professione faceva il musicista. Con la sua band, i Nirvana, aveva improvvisamente avuto un successo straordinario, trasformando quello che doveva essere un fenomeno locale, il grunge, in una mania di proporzioni mondiali, in qualcosa che caratterizzò un'epoca e che avrebbe segnato parecchie generazioni di adolescenti. Il problema è che lo fece senza volerlo. Perché Cobain, portando con la sua voce ruvida e triste i sentimenti di claustrofobica disperazione di Seattle in tutto il globo, diventò inconsapevolmente un'icona di autodistruzione e romanticismo. Kurt si trasformò così in qualcosa che lui stesso non fu in grado né di gestire né di accettare.

Il suo declino fu veloce quanto la sua ascesa. Molti non ebbero modo di capirlo, almeno fino a quel 5 aprile. L'industria discografica continuava a sfruttare la sua gallina dalle uova d'oro, e Kurt continuava a distruggersi con la droga e con la sua depressione. Molti dissero che era una fine annunciata, la sua. La stessa cosa si disse di Amy Winehouse, recentemente entrata a far parte del cosiddetto “Club dei 27”, quello di cui fanno parte i musicisti come Jim Morrison e lo stesso Cobain, che per una maledetta coincidenza sono morti all'età di 27 anni.

Kurt però sosteneva di essere morto da tempo. Lo scrisse nel suo testamento, trovato poi accanto al suo corpo, devastato dal colpo di fucile che lui stesso si era sparato al volto: “Non c'è più passione nella mia vita. E allora è meglio bruciare in un attimo che svanire lentamente”. L'ultima frase Kurt la prese in prestito da Neil Young. Fa strano pensare che uno come lui, che con la sua musica, le sue parole e la sua voce aveva comunicato alle persone quello che nessuno prima di lui era stato in grado di esprimere, dovette usare una citazione per spiegare il perché della sua volontà di morire.

È che forse, semplicemente, Cobain non era abituato a parlare di morte. Perché la sua musica, il suo dolore, le sue grida erano la forma più intensa e più umana di vita. Quella di cui è impossibile discutere, perché si può solo sentire, e che si può amare o odiare, ma non si riesce a ignorare. Come il suono secco di uno sparo.

(Twitter: @andreaandrei_ )

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