Le rock star non invecchiano. E Joe Cocker se ne è andato ieri a 70 anni, portato via da un cancro e da una vita vissuta sul filo degli stravizi e della dipendenza dalla droga.
Joe, il Leone di Sheffield con il blues nel sangue, era un sopravvissuto da almeno quattro decenni. Lo era anche quando tornò prepotentemente alla ribalta negli anni Ottanta, con un paio di pezzi splendidamente confezionati che lo imposero in tutto il mondo attraverso due film di enorme successo, You Can Leave Your Hat On, il brano di Randy Newman che accompagnava l'epocale spogliarello di Kim Basinger in 9 settimane e1/2 e Up Where We Belong, in duetto con Jennifer Warnes parte della colonna sonora di Ufficiale Gentiluomo e con cui vinse anche un Oscar.
IL RITORNO
Era, quello, un sorprendente ritorno dall'inferno di un eroe di Woodstock, la tre giorni di pace, amore e musica, che proprio nella sua prima giornata, venerdì 15 agosto del 1969, fu segnata dal suo urlo gutturale che bruciava le note di With a Little Help from My Friends di George Harrison, una versione formidabile già registrata qualche mese prima con Jimmy Page alla chitarra, e diventata un hit delle classifiche inglesi.
Posseduto, Joe Cocker, lo era davvero: alcol e droghe gli fecero rischiare di chiudere giovanissimo una carriera appena iniziata ma già piena di promesse. A 15 anni, con il nome di Vance Arnold, faceva parte degli Avengers. E, dopo Woodstock, l'episodio più riuscito della sua carriera fu il tour con Leon Russell dei Mad Dogs & Englishmen, un viaggio di cui esiste un filmato che ne documenta la felicità artistica assoluta. Ma dopo quell'exploit la carriera di Cocker fu inghiottita dal buio della droga. «Sono stato terribile e, certo, non mi mancano quei giorni. Ma la vita è fatta di esperienze, belle e brutte. Tutto sommato sono stato fortunato», ci raccontò qualche tempo fa di quegli anni.
Risbucò dal silenzio una decina di anni dopo, quando negli anni 80 la musica aveva già deciso di celebrare il suo passato ripescando i vecchi eroi perduti. E il suo repechage è da assegnare a uno staff formidabile che gli fece indossare canzoni perfette per il suo stile, dove la rudezza del rock e del blues incontrava la morbidezza delle melodie di pezzi come Unchain my heart, trasformandolo insomma da ribelle leonino in interprete mainstream. Un ruolo in cui è rimasto impigliato. D'altra parte l'industria della musica funziona così e un successo come quello di You can't leave your hat on, per di più associato a una scena sexy rappresentativa di un'epoca, è destinato per forza di cose a marchiare a fuoco chi se ne fa interprete.
L'ITALIA
Uno dei Paesi che lo accolse con maggior partecipazione, in questa sua seconda vita professionale, fu l'Italia, grazie alla mediazione di Zucchero che, con l'entusiasmo del fan, ritagliò la sua musica e il suo personaggio sulla sagoma di Joe, incrociandolo spesso, a volte duettando con lui, prendendolo come modello di riferimento. C'è un altro cantante italiano con cui Cocker ha duettato, Eros Ramazzotti, che nel '98 lo recuperò per That's All I Need to Know. Da allora Cocker ha ridotto di molto le sue apparizioni, logorato dai ricordi e dal successo, nel 2010 uscì un suo album dimenticabile dopo 8 anni di silenzio e nel 2012 è uscito Fire it up,quello che resta il suo ultimo disco (a meno che dagli archivi non esca l'inevitabile inedito).