«Quando ci siamo incontrati è stato amore a prima vista. E ora sono cinquant’anni che stiamo insieme. Lui è italiano, io, un cittadino del mondo. Mai una crisi». Mischa Maisky presenta il suo compagno, il violoncello Montagnana, (un veneziano del Settecento), lo strumento con cui ha affrontato una vita di studi e di successi fino a diventare un musicista leggendario. È stato diretto da Bernstein e da Petrenko, ha suonato con la Argerich e Lang Lang, da 30 anni è un artista esclusivo Deutsche Grammophon. E il 2 marzo (ore 21), sarà sempre lui, il suo “vecchio amico” Montagnana, ad accompagnarlo al Teatro Argentina, per la stagione della Filarmonica Romana: in programma le Suites per violoncello solo di Bach, «un diamante, con tante sfaccettature diverse che riflettono la luce in innumerevoli modi».
Rostropovič e Piatigorsky
Maisky, lettone, 75 anni, unico violoncellista al mondo ad aver studiato sia con Rostropovič sia con Piatigorsky («sono rimasto orfano da piccolo e loro sono stati anche due padri»), ha scelto per l’incontro con il pubblico romano la n. 1 in sol maggiore BWV 1007, la n. 4 in mi bemolle maggiore BWV 1010 e la n. 5 in do minore BWV 1011, completando il ciclo avviato con l’Accademia nella stagione precedente. «Sono nato a Riga, ho studiato in Russia, sono rimpatriato in Israele, viaggio in continuazione, ma quando arrivo in Italia, tra monumenti, natura, vino, cibo, è una meraviglia. Due dei miei figli sono nati qui. Così come il mio violoncello che è sempre felice di tornare a casa».
Che cosa ha di particolare il suo strumento?
«È speciale perché è mio. È italiano, con archi francesi e tedeschi, corde austriache e tedesche. Ha mille patrie come me. Credo che sia nato nello stesso periodo in cui Bach componeva le Suites per violoncello, anche se non è facile stabilire una data, mancando il manoscritto originale. Comunque sia, l’età non conta, perché si tratta di un capolavoro universale, che non può essere confinato a un’epoca o a un Paese. È una Bibbia».
Che cosa le hanno dato tutti questi anni in compagnia di Bach?
«È stato il compositore più generoso con il violoncello.
Molti suoi colleghi sono propensi, invece, a riprodurre fedelmente le esecuzioni del periodo barocco. A lei non interessa?
«Sarebbe andare contro la sua mentalità: Bach era un progressista, non sarebbe stato contento di tornare indietro nei secoli. E poi oggi le sale sono diverse, siamo pervasi da suoni che allora non esistevano, esiste la tecnologia: sono operazioni che non capisco. Ma bisogna vivere e lasciar vivere».
Lei come se lo immagina Bach?
«Era un uomo che amava la vita, bere, mangiare. Aveva venti figli. Conosceva le emozioni. E si sente».
Si dice che il violoncello sia lo strumento più vicino alla voce umana?
«Assolutamente sì. È il suono che più assomiglia al canto. E la voce è uno strumento perfetto: non è stato creato dagli uomini. Il violoncello, però, può “intonare” note altissime e basse, è più versatile».
Bach è stato remixato in chiave jazz, pop: a lei è mai venuto in mente?
«Credo che esistano solo due tipi di musica, quella bella e quella cosi così. Io sono aperto a tutto. Ma non sono portato a imparare tante cose diverse. Ed è per questo motivo che non dirigo e non insegno stabilmente. E poi ho tanti figli, non come Bach, cui dedico molta energia».
Tre sono musicisti e hanno suonato con lei.
«Loro sono professionisti, gli altri studiano. L’importante è che abbiano un contatto con la musica. Il sogno della mia vita».