E a pochi giorni dalla prima di “Semele” di Händel, eseguita nella stagione dell’Accademia romana (l'8 maggio) con con i suoi complessi degli English Baroque Soloists e del Monteverdi Choir, ha già in mente come rilassarsi: «Villa Medici, le magnifiche chiese. Sono venuto tante volte in Italia, da bambino, con mia madre. Mi ricordo ancora i bagni a Positano. Ma è in questa città che ritrovo così tanti legami con i miei interessi».
John Eliot, 75 anni, inglese, studioso appassionato e divulgatore militante della cultura del Seicento, ma anche esploratore del repertorio romantico, conserva la vivacità che lo ha portato a mettersi in cammino con i suoi colleghi, “armati” di strumenti secolari, lungo il pellegrinaggio di Santiago. L’ironia: «Essere diventato baronetto non ha cambiato granché nella mia vita. E’ solo più facile trovare posto al ristorante». E l’energia di chi riesce a mantenere in piedi decine di progetti «dal tour che mi porterà in Sudamerica, dove non sono mai stato» alla gestione di una fattoria nel Dorset «dove sono cresciuto», con mucche e pecore divise nelle due stalle «che ho chiamato Benvenuto Cellini e Vedova Allegra perché le ristrutturai con i cachet delle due opere».
Ginnastica al mattino («Per stare tre ore con le braccia alzate bisogna essere in forma»), massaggi e «qualche fuga in Oriente a meditare, anche se l’equilibrio mentale lo devo alla campagna dove coltivo anche prodotti biologici».
Pieno di curiosità verso nuovi repertori, è comunque a Monteverdi che ha dedicato un’intera vita. Da quando, studente di Lingue Arabe a Cambridge, diresse per la prima volta i Vespri al King’s College, fino agli approfondimenti degli ultimi mesi, estesi ai “coetanei” di Monteverdi, «a tutti gli altri figli di quel secolo che ha regalato al mondo anche Rubens, Galileo, Shakespeare, Keplero: saranno materiale di un podcast, per indagare le ragioni di tanta fertilità».
Al momento sta lavorando al tour che lo vedrà con “Semele” di Haendel, dopo Parigi e Barcellona, a Londra il 2 maggio, alla Scala il 6 e l’8 a Roma. «Viene classificato come oratorio, ma ha già tutti gli elementi dell'opera lirica e anticipa i capolavori del XIX secolo.
Un oratorio si basa su testi sacri, mentre Semele ha un testo laico. Anzi, profano, come lo definirono al suo debutto, per poi decidere di ritirarlo dal repertorio inglese. Ha una forza strepitosa, una struttura drammaturgica moderna».
Ad accompagnarlo, spesso con la fascetta anti-Brexit sul braccio, la sua formazione cult Monteverdi Choir, la stessa con cui ha percorso il Cammino di Santiago, dando vita a una delle operazioni-manifesto della sua carriera. Non l’unica: nel Duemila, per i 250 anni della morte di Bach partì per il Bach Pilgrimage proponendo negli Stati Uniti le cantate sacre nei giorni delle festività liturgiche per cui vennero composte.
Nel frattempo incisioni, quasi 300 (l’ultima “Love is Come Again”, brano scritto da sua madre nel ‘64 e suonato a Pasqua nelle chiese del Dorset), concerti, ricerca di manoscritti, progetti all’estero (Mosca e Sudamerica con Scarlatti, Carissimi, Purcell e Monteverdi) e il lavoro con le altre orchestre: la Révolutionnaire et Romantique e l’English Baroque Soloist con cui affronta repertori diversi, rigorosamente con strumenti d’epoca.
Una specie di missione. «Finito il college, non avevo le idee chiare. Appassionato di cultura araba, ma già musicista. Il professore mi suggerì di partire. Trascorsi l'estate tra il Libano e la Giordania. Andai a lavorare nei campi di rifugiati. Quando tornai, avevo 21 anni, ho fondato il mio primo Choir, e non mi sono più fermato».
Le questioni orientali gli sono comunque rimaste nel cuore: «Ero affascinato dalle relazioni tra Cristianesimo e Islam. In particolare, oggi, mi interrogo sulle incomprensioni e sui fraintendimenti».
E a proposito di incomprensioni, che cosa ne pensa della Brexit? «Sono assolutamente contrario e ancora mi auguro che non avvenga. Le mie orchestre sono europee e sarebbe un disastro anche per la musica».
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